Da La Stampa del 21/09/2004
Torino, immigrati a scuola
I problemi dell'aula con mille colori
di Elena Loewenthal
Altro che soliti ritardi burocratici, ricorrenti proteste dei precari, spazi inadeguati. L'anno scolastico che si è appena aperto, infatti, arriva scortato da una questione ben più cruciale per tutti, studenti e non. Alla vigilia della prima campanella a Torino, dove mediamente il 9 per cento dei bambini in età scolare viene da una famiglia di recente immigrazione, c'è stata, da parte delle mamme, una ricerca quasi spasmodica delle scuole con meno stranieri. A Genova si è firmato un protocollo d'intesa per evitare una eccessiva concentrazione di allievi immigrati e distribuirli in maniera uniforme nelle scuole della città, mentre Brescia si è vista bocciare dal ministero la proposta di introdurre dei tetti alla presenza di studenti stranieri. Non è puro campanilismo, non è nemmeno - o non soltanto - una fobia che viene dall'ignoranza e dalla diffidenza. Più che un deprecabile rifiuto, c'è il timore che una presenza troppo numerosa di bambini che non sono nati né cresciuti con l'italiano come lingua madre, possa rallentare negli altri il cammino fondamentale del primo apprendimento.
Fermarsi a guardare l'uscita di una scuola elementare in una qualsiasi grande città del nostro Paese è ormai un'esperienza emozionante: ne esce un arcobaleno di colori inimmaginabile sino a qualche anno fa. Ma l'altra faccia di questa apparentemente raggiunta integrazione è un divario inevitabile, tra chi parte meglio e chi parte peggio equipaggiato. Fra chi arriva sui banchi con un bagaglio di conoscenze già acquisite e chi invece deve partire da capo, per un'esplorazione avventurosa ma sfiancante. Che significa innanzitutto non poter contare su papà e mamma per i compiti che ti assegna la maestra, sin dal principio. E anzi, non di rado tocca pure, tornati a casa al pomeriggio, insegnare a loro quell'abicì.
La soluzione, se come tutti speriamo esiste, non è quella di stabilire norme generiche generali, valide per tutti ma per nessuno. Si tratta invece, forse, di intervenire scuola per scuola, classe per classe. Aiutando con premurosa discrezione chi ha bisogno, e intanto sollecitando con attività parallele chi parte avvantaggiato, perché la noia a scuola è uno spauracchio non meno dell'ignoranza. Un po' come succedeva una volta nelle scuole sperdute sulle isole e in montagna, con le pluriclassi dove i cammini erano diversi, ma si stava tutti insieme dentro quel mondo piccolo, bello perché vario.
Fermarsi a guardare l'uscita di una scuola elementare in una qualsiasi grande città del nostro Paese è ormai un'esperienza emozionante: ne esce un arcobaleno di colori inimmaginabile sino a qualche anno fa. Ma l'altra faccia di questa apparentemente raggiunta integrazione è un divario inevitabile, tra chi parte meglio e chi parte peggio equipaggiato. Fra chi arriva sui banchi con un bagaglio di conoscenze già acquisite e chi invece deve partire da capo, per un'esplorazione avventurosa ma sfiancante. Che significa innanzitutto non poter contare su papà e mamma per i compiti che ti assegna la maestra, sin dal principio. E anzi, non di rado tocca pure, tornati a casa al pomeriggio, insegnare a loro quell'abicì.
La soluzione, se come tutti speriamo esiste, non è quella di stabilire norme generiche generali, valide per tutti ma per nessuno. Si tratta invece, forse, di intervenire scuola per scuola, classe per classe. Aiutando con premurosa discrezione chi ha bisogno, e intanto sollecitando con attività parallele chi parte avvantaggiato, perché la noia a scuola è uno spauracchio non meno dell'ignoranza. Un po' come succedeva una volta nelle scuole sperdute sulle isole e in montagna, con le pluriclassi dove i cammini erano diversi, ma si stava tutti insieme dentro quel mondo piccolo, bello perché vario.
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