Da Corriere della Sera del 31/01/2004

IL CASO / In pericolo soprattutto i militari provenienti dall’Africa sub sahariana: colpiti dal 10 al 60% dei soldati

Il contagio falcia i caschi blu, missioni di pace a rischio

Molti di loro sono in servizio in regioni dove l’infezione è diventata un’epidemia

di Goffredo Buccini

Non solo bambini con gli occhi lucidi di febbre. Non soltanto madri ridotte a scheletro in una branda. Cadono i caschi blu, come davanti alla mitraglia. I gendarmi del mondo traballano su gambe fiaccate dal virus, spaventapasseri in divise troppo grandi. Il più famoso di tutti gli uomini con le stellette, Colin Powell, già da un pezzo ha detto la sua a un’assemblea delle Nazioni Unite: «Ero un soldato, lo sapete. Ma non ho mai conosciuto in guerra un nemico più insidioso e malvagio dell’Aids: crea un pericolo chiaro e presente per il mondo». Eravamo ancora nel 2001, l’anno del più terribile attacco terroristico della storia, e una ricercatrice sudafricana, Lindy Heinecken dell’università di Stellenbosch, compilava in quelle ore un rapporto destinato a incidere molto (e ad influenzare forse persino il punto di vista del segretario di Stato americano): «Pochi hanno realizzato finora che questa malattia è, per la sicurezza transnazionale, un rischio più grande del terrorismo. Già adesso, nell’Africa sub sahariana, uccide dieci volte di più di qualsiasi guerra. E sta lasciando gli Stati incapaci di fronteggiare tumulti politici e sociali, proteggere la sovranità e difendere gli interessi nazionali».

Sembrava un paradosso. Bin Laden e gli altri strateghi del caos globale, con tutti i loro kamikaze, non avrebbero potuto inventarsi uno scenario più propizio. Ma, citando la «sicurezza transnazionale», Lindy non parlava a casaccio. Il punto cruciale del rapporto, che avrebbe dovuto far sobbalzare anche molti politici occidentali, era la presa d’atto d’una crisi già visibile da tempo: l’annuncio che le forze armate dei Paesi in via di sviluppo (quelli più colpiti dal virus), e in particolare degli Stati africani (in cima agli indici di mortalità), erano destinate ad arrendersi presto al nemico di cui parlava Powell; e, visto che la maggioranza dei 92 Stati da cui l’Onu arruola i caschi blu si trova nelle zone più micidiali di diffusione dell'Aids, non era difficile prevedere il futuro delle operazioni di peacekeeping . «L’incremento dell’infezione tra i soldati non solo indebolisce la capacità di difendere le loro nazioni, ma anche di fornire personale qualificato per le missioni umanitarie e per il mantenimento della pace», scriveva la Heinecken. In due anni, il peso dell’Hiv tra i militari dell’Africa sub sahariana è salito ancora: le medie vanno dal 10 al 60 per cento, Sud Africa, Angola e Repubblica democratica del Congo sono in cima alla lista. Ma i dati sono incerti, i governi li tengono nascosti per timore di svelare la loro debolezza diventando possibili prede per le nazioni confinanti. In Sud Africa, ad esempio,, fonti ufficiali parlano di un 19 per cento di sieropositivi nelle forze armate, fonti dell’opposizione del 60 per cento, fonti giornalistiche sostengono che in alcune unità si tocca il 90 per cento.

Lo scorso novembre, Peter Piot, direttore esecutivo di Unaids - l’agenzia Onu che si occupa del virus - ha discusso a lungo con i capidipartimento del peacekeeping per decidere come rafforzare la risoluzione 1308, con cui già nel 2000 gli uomini del Palazzo di vetro riconoscevano che la malattia, «riducendo le capacità di intervento dei soldati», avrebbe «impedito al Consiglio di sicurezza di far fronte alle sue principali responsabilità». Un worst case scenario , uno scenario da incubo, che il direttore di Unaids descrive così: «L’Hiv è un pericolo per ciascuno dei 42 mila soldati sotto il comando dell’Onu. Molti fanno servizio in regioni dove l’infezione è fortissima, un terzo di loro in Africa. Le operazioni di peacekeeping sono sotto minaccia grave».

E, sotto minaccia, parlano quindi i soldati. Non generali famosi, ma piccoli ufficiali come Joseph Akufai - nigeriano, sieropositivo con moglie e sette figli a carico - che l’altro giorno a un convegno è andato a dire: «Il governo ci pensi bene prima di mandarci in servizio di peacekeeping : l’Aids sta divorando le nostre caserme». Il colonnello Wale Egbewunmi, coordinatore del programma di controllo dell’esercito nigeriano sull’Aids, ha sospirato: «Esperienza e capacità andranno perse, ci mancheranno truppe e bravi ufficiali». Giovani, lontani dalle famiglie, abituati a pensare alla propria vita come a una mano di roulette russa, con scarse informazioni su come prevenire il virus: i ragazzi delle forze armate africane sommano molte caratteristiche delle categorie a rischio. In Sierra Leone come in Cambogia il loro passaggio ha fatto segnare un’impennata dell’infezione anche dove i casi fino ad allora registrati erano pochi o nulli. Niente di nuovo: gli spostamenti delle truppe hanno fatto da moltiplicatore delle malattie in ogni campagna militare (nell’armata napoleonica per ogni uomo ucciso in battaglia quattro ne morivano di sifilide e infezioni varie). Il ritorno a casa dei soldati è un ulteriore fattore di contagio, e pesa sulle strategie dei governi: secondo un rapporto del Centro di studi strategici e internazionali, «una delle ragioni per cui il Ruanda ha protratto tanto il proprio ingaggio nella Repubblica democratica del Congo è stato appunto il timore di vedersi tornare in patria un esercito infetto».

Gli americani si muovono, adesso. Bush ha annunciato una spesa di 15 miliardi di dollari in cinque anni. Ma Kofi Annan sostiene che servono dieci miliardi l’anno. Sono 38 i Paesi che hanno infine messo in piedi una strategia per spiegare almeno cos’è l’Aids ai loro ragazzi in uniforme e il sottosegretario generale alle operazioni peacekeeping , Jean-Marie Guehenno, ha salutato come un successo l’invio di consiglieri sanitari alle truppe impegnate in Congo, Etiopia, Eritrea e Sierra Leone (di quattordici operazioni aperte, sei sono ancora oggi in Africa).

Difficile pensare che basti, se si torna a leggere quel vecchio rapporto del 2001, in cui si annunciavano 40 milioni di orfani dell’Aids nei prossimi decenni e dunque nuovi battaglioni di bambini-soldato, che diventeranno giovani predatori e disperati, buoni ad alimentare il circolo vizioso che sta condannando a morte l’Africa e forse tutti noi al caos. Difficile crederlo in un ospedale di Harare, davanti a un soldato di 40 anni come Godfrey, sieropositivo assieme alla moglie e ai cinque bambini: uno come tanti nello Zimbabwe. Difficile illudersi quando il governo sudafricano da un lato partecipa con gli americani al progetto «Masibambisane» (in lingua zulu, «Lavoriamo assieme») e dall’altro mette seriamente i suoi militari sieropositivi davanti a un bivio tra antiretrovirali e dieta. Secondo Manto Tsbabala Msimang, ministro della sanità, per fermare la nuova peste aglio, olio d’oliva e patate dolci sono proprio una mano santa.

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