Da La Repubblica del 13/11/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/k/sezioni/esteri/iraq6/iraq6/iraq6.html

Commento

Il dolore e la politica

di Ezio Mauro

È IL giorno del dolore, per un Paese che si ritrova all'improvviso a contare i suoi morti di guerra, dopo l'ambiguità di parole e concetti che forse non hanno trasmesso agli italiani l'esatta percezione politica del nostro ruolo nella partita mondiale aperta in questo tormentato dopoguerra iracheno. Contiamo i morti, raccogliamo le loro storie di giovani soldati e ragazzi carabinieri cresciuti in tempo di pace e uccisi dal terrorismo iracheno, senza aver compiutamente elaborato - nella coscienza politica collettiva - la consapevolezza di essere in guerra.

Oggi lo sappiamo. E oggi, insieme con lo sgomento per la dimensione della strage, deve prevalere un senso di responsabilità collettiva non solo nel cordoglio per le vittime, ma nel sostegno al compito e al ruolo che i nostri soldati stanno svolgendo nell'Iraq liberato, e nella conferma che il terrorismo omicida non può intimidire una democrazia né dirottare le sue scelte.

Nessuna strumentalizzazione, dunque, perché non si fanno calcoli di parte davanti a una tragedia. Ma, nello stesso tempo, nessuna sospensione della politica. Perché c'è una logica perversa, e tuttavia politicamente facile da leggere, in ciò che è accaduto e continuerà ad accadere in Iraq. Proviamo a parlarne con animo oggettivo e responsabile, come vuole la gravità della giornata.

La guerra e il suo trascinamento senza pace, dopo la caduta di Saddam Hussein, nascono da un attacco terroristico che ha colpito l'America, ma che è stato lanciato contro tutto l'Occidente. Le democrazie hanno non solo il diritto ma il dovere di difendere i loro cittadini e i loro valori - dunque se stesse - dalla sfida terroristica. Hanno però l'obbligo, come Repubblica ha sempre ripetuto in questi mesi, di difendersi restando se stesse: dunque rispettando il diritto internazionale, i sistemi di regolazione dei conflitti e gli organismi di garanzia, come le Nazioni Unite.

La guerra in Iraq era sbagliata perché usciva da queste regole, sulle quali si regge il diritto e il concetto stesso di Occidente. Anzi: trasformava l'Occidente in un meccanismo di delega, con l'America di Bush che esercitava la forza fuori dal diritto, pretendendo di farlo in nome e per conto del mondo libero.

Queste scelte hanno diviso il nostro continente, tra vecchia e nuova Europa. E anche l'Europa più vecchia si è spaccata in due. Il governo italiano tra la cittadinanza comune europea da ricomporre e la partnership militare con gli Usa ha scelto questa seconda strada: fuori dall'Onu anch'essa, in una visione probabilmente coerente con l'immagine di neo-conservatore di complemento che a Berlusconi piacerebbe impersonare, non potendo contare né su una tradizione né su uno standard internazionale riconosciuto e riconoscibile.

La guerra, com'era previsto, ha cacciato il dittatore, e questa è stata una vittoria per la democrazia. Il dopoguerra, com'era prevedibile, stringe i liberatori nell'assedio invisibile del terrorismo, un assedio che sembra senza fine.

Oggi, dopo che l'America ha chiesto aiuto all'Onu per tentare di ritrovare un controllo per il dopoguerra impazzito, l'Italia deve lavorare per riportare la politica al suo posto - accanto alla forza - nella crisi irachena, aiutando le Nazioni Unite a giocare un ruolo effettivo, gli iracheni a costruire un vero governo autonomo, l'Occidente a contare sui valori dell'Europa accanto a quelli dell'America. Cambiando strada, attraverso la politica.

È questo, a nostro parere, il modo più responsabile di rispondere al sacrificio dei soldati, perché non sia vano: chi parla di ritiro dei nostri uomini, dopo un attacco terrorista omicida, ideologizza il dopoguerra simmetricamente all'uso ideologico che Berlusconi ha fatto della guerra. Sapendo che il pantano iracheno riguarda oggi non solo l'America ma tutto l'Occidente: che non può lasciare campo libero al terrorismo, né tantomeno alla rivincita postuma di dittatori sconfitti.

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