Da La Repubblica del 13/11/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/k/sezioni/esteri/iraq6/granderete/grande...

Commento

La grande rete del terrore

di Bernardo Valli

LA NOSTRA prima reazione si riassume in una lineare, incondizionata solidarietà ai soldati partiti per una missione pacifica, umanitaria, e rimasti coinvolti in quella che è ormai impossibile non chiamare una guerra.

Il sangue di Nassiriya, per il numero di morti e feriti, è una pagina della storia militare italiana senza precedenti negli ultimi decenni. Per trovare qualcosa di simile, nel più di mezzo secolo trascorso dalla fine del secondo conflitto mondiale, bisogna risalire ai tredici avieri massacrati a Kindu, nel Congo ex belga in preda alle convulsioni dell'indipendenza, nel novembre '61.

Anche allora la strage avvenne durante una missione pacifica girata in tragedia. E' un aspetto che va sottolineato per ricordare che la guerra non è una vocazione dell'Italia repubblicana. Quella in Iraq non era prevista.

Doveva essere un dopoguerra, ma i pronostici erano sbagliati e le cose sono andate altrimenti. I carabinieri e i soldati della Brigata Sassari hanno affrontato l'imprevista realtà senza retorica, senza far chiasso. Il prezzo di questa loro dignità è stato molto alto. Vorremmo che essa rispecchiasse l'immagine del Paese e che non diventasse una merce politica.

I morti e i feriti di Nassiriya suscitano la nostra totale solidarietà: ma essa va anche, illimitata, ai carabinieri e ai soldati che resteranno o andranno in Iraq per continuare una missione incompiuta e ricca di rischi.

E' infatti impensabile, a questo punto, gettare la spugna. Non solo sarebbe indecoroso, sarebbe anche disastroso. George W. Bush aggiudica all'intervento preventivo anglo - americano il merito di avere detronizzato un dittatore.

E' vero. Saddam Hussein è adesso costretto a una clandestinità da dove può condurre con sinistra efficacia la guerra che non ha potuto fare alla luce del sole. Bush gli ha preparato un terreno adeguato alle sue forze. Gli ha ritagliato un campo di battaglia su misura. Saddam e i suoi generali erano impotenti davanti alla potenza militare degli Stati Uniti; gli Stati Uniti e i loro alleati sono adesso impacciati, smarriti, di fronte alla guerriglia e al terrorismo. Le forze della coalizione, prima quelle americane, adesso anche quelle alleate, attirano i terroristi come il miele i più svariati insetti.

Tutti i demoni, i fantasmi, le frustrazioni, le collere, i fanatismi, del mondo musulmano si abbattono sull'Iraq. La massa è informe e può essere inesauribile. E' la corsa all'America: la quale, incauta, si è spinta fino in Medio Oriente, e ora è a portata di mano. E' un'occasione unica. Basta raggiungere le valli del Tigri e dell'Eufrate. Non bisogna più attraversare l'Atlantico e superare confini ostili. Manhattan, Wall Street, le Torri Gemelle sono alla portata di un kamikaze in automobile.

I servizi segreti americani e inglesi non si raccapezzano, non riescono a ricostruire la trama. Ma ne esiste una? Non è piuttosto all'opera un mosaico di gruppi terroristici, a volte alleati, a volte concorrenti? Saddam Hussein se l'intende con Al Qaeda? Ma l'Al Qaeda che si aggiudica l'attentato di Ryad è quella che si sospetta sia presente a Bagdad?

I Paesi arabi, retti da regimi moderati, sono terrorizzati dall'idea che il terrorismo addensatosi in Iraq dilaghi nella regione. A questo punto gli americani non possono abbandonare la mischia che hanno contribuito a creare. E con loro devono restare gli alleati. L'opera di bonifica riguarda tutti i Paesi sani di mente, musulmani o occidentali. Essa non va però affrontata con spirito velleitario e masochista: due aggettivi che la stampa d'oltreatlantico, in vena di sarcasmo, non risparmia al suo presidente.

Ecco due esempi, due errori rivelatisi decisivi. Non recuperando l'esercito regolare di Saddam Hussein, rimasto in larga parte ai margini della guerra, e lasciando che si disperdesse col materiale in dotazione, gli americani hanno inondato il Medio Oriente di armi e di esplosivi. Un arsenale che non sarà facile recuperare.

Ma lo sbaglio madornale è stato di affidarsi ad esuli iracheni senza radici nel paese o di dubbia reputazione internazionale per realizzare il grande, ambizioso progetto di Bush: creare una democrazia sulle rive del Tigri, la prima vera democrazia araba, che avrebbe via via contagiato tutto il Medio Oriente, dando un'impronta di rispettabilità persino al mercato del petrolio.

Più cauti e più esperti, i diplomatici del Dipartimento di Stato avevano prospettato un programma diverso, che prevedeva il recupero di parte del regime iracheno, in sostanza dell'apparato statale. Ma è prevalso il progetto del Pentagono, che ha riportato in patria una banda di affaristi spesso ammanigliati con gruppi di interesse nordamericani. Né sciiti, né sunniti, né curdi si sono riconosciuti in loro. Gli americani hanno stentato e stentano a trovare veri interlocutori e veri alleati. Per molti iracheni non sono i liberatori. Sono rimasti gli invasori.

E' bene ricordare, ripetere queste cose. Perché è sulla base di quegli errori che i nostri soldati sono andati in Iraq, dove avevano il compito di partecipare alla ricostruzione del dopoguerra. E dove invece si sono trovati coinvolti in una guerra in cui è difficile difendersi, perché il nemico non ha un volto preciso, e si sacrifica, si uccide pur di ucciderti. E tu, straniero, vieni identificato come un occupante, perché sei alleato degli americani.

Quando il governo italiano decise di mandare i duemila cinquecento soldati nell'Iraq meridionale, le Nazioni Unite, cui il presidente del Consiglio diceva curiosamente di ispirarsi, non avevano ancora dato un mandato alla coalizione guidata dagli americani. Si ebbe allora l'impressione che Berlusconi avesse deciso di ricambiare i gesti cordiali prodigatogli da Bush. Effusioni che compensavano la scarsa considerazione in cui era tenuto in Europa.

Del resto il governo italiano, sia pure con qualche prudente balbettio per non prendere di petto l'opinione pubblica contraria, aveva approvato la guerra preventiva, staccandosi nettamente da Francia e Germania. E quindi l'invio di truppe a scopi pacifici, a guerra finita e vinta, aveva una sua logica. Senonché si è scoperto presto che la guerra non era finita e non era stata vinta. E che l'Iraq, liberato da un orribile dittatore, era diventata una polveriera: qualcosa di molto simile a un vulcano che spaventa l'intero Medio Oriente, e può minacciare l'Europa.

Di fronte a un fatto compiuto, e a un pericolo da contenere, le Nazioni Unite hanno dato infine un preciso mandato alla coalizione guidata dagli Stati Uniti. Hanno persino esortato i paesi che ne hanno i mezzi a parteciparvi. Nulla da eccepire, dunque, sul piano della legalità internazionale, alla presenza italiana a Nassiriya. Né sulla necessità di contribuire alla lotta contro il terrorismo. Ma a condizione che essa non avvenga soltanto sulla scia, o addirittura soltanto agli ordini, della potenza imperiale, cui si deve l'attuale disastro iracheno. E' proprio questa volontà che si vuole esprimere quando ci si richiama alle Nazioni Unite, come fa il nostro presidente della Repubblica.

Il cordoglio esclude le polemiche ma non la verità. E la franchezza ci spinge a rivolgere un invito a Silvio Berlusconi. I morti e i feriti di Nassiriya stimolano, giustamente, in queste ore, la simpatia americana nei confronti dell'Italia. Lei faccia di tutto, presidente del Consiglio, per non dirottarla su di sé, quasi a farlo diventare un credito personale con Bush. In quei carabinieri e in quei soldati della Brigata Sassari si deve rispecchiare il Paese.

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