Da Il Sole 24 Ore del 18/07/2003

La Commissione boccia i suoi esperti

di Adriana Cerretelli

BRUXELLES - Una rivoluzione copernicana: basta politica agricola comune, basta politica regionale, revisione radicale della politica di concorrenza, allentamento dei vincoli nel Patto di stabilità. Chi teorizza la fine dell'Europa comunitaria "classica" e il principio di un modello di convivenza e gestione delle politiche europee completamente nuovo non è il solito economista americano allergico a usi e costumi (spesso pessimi) della vecchia Unione prossima all'allargamento a 25 Paesi. No. È un gruppo di otto esperti indipendenti, guidati dal belga André Sapir (per l'Italia ha partecipato Giuseppe Bertola dell'Università di Torino) interpellati dal presidente della Commissione europea Romano Prodi. Al termine di un anno di lavoro gli otto sono giunti alla conclusione che l'Europa, così come è, proprio non va. In breve è quasi tutta da rifare. Perché non funziona in modo efficiente, vive di troppe contraddizioni e, soprattutto, non produce crescita economica. Non stupisce allora che, quando è stato presentato domenica scorsa da Prodi al seminario della Commissione sulle prospettive finanziarie dell'Unione, l'Agenda per un'Europa in crescita (così si intitola il rapporto) abbia fatto scandalo tra i suoi membri. Quasi tutti insorti con parole di fuoco. Michel Barnier, responsabile della politica regionale, ha parlato di un documento «insensato e irrealista che ignora i principi di solidarietà che reggono l'Europa». Franz Fischler, all'Agricoltura, ha messo in guardia contro la «rinazionalizzazione della spesa agricola che non garantirebbe né meno burocrazia né più efficienza ma metterebbe seriamente a rischio la tenuta del mercato unico», in altre parole sarebbe un gioco a somma negativa per l'Unione. Secondo la svedese Margot Wallstrom (Ambiente) il rapporto sembra «redatto da un ciclope che guarda alla realtà con il suo unico occhio economico contraddicendo così spirito e lettera del processo di Lisbona che, per fare di quella europea l'economia più dinamica e competitiva del mondo entro il 2010, punta sul concetto di sviluppo sostenibile, che si articola sulle variabili sociale e ambientale oltre che economica». Pedro Solbes, il guardiano del Patto di stabilità, «in disaccordo sulla parte macroeconomica dell'analisi» ritiene invece la flessibilità interpretativa del Patto «in linea con la comunicazione della Commissione del novembre scorso». Contro si sono scagliati anche il francese Pascal Lamy (Commercio), la spagnola Loyola de Palacio (Trasporti e Energia), lo stesso Mario Monti (Concorrenza), visto tra l'altro che il rapporto spolpa e non poco i poteri di Bruxelles nel settore. Solo l'olandese Frits Bolkestein ha spezzato una lancia convinta a favore dell'approccio «decisamente liberista» del gruppo del presidente. Vista la tempesta scoppiata intorno al documento, Prodi ne ha preso le distanze definendolo un contributo al dibattito. Sollecitato ad esprimere comunque l'opinione del presidente sul medesimo, ieri il suo portavoce ha scantonato evitando di rispondere. La tesi degli Otto è molto semplice: l'attuale bilancio dell'Unione è una reliquia della storia perché non risponde alle esigenze attuali che sono soprattutto quelle di carburare la crescita economica e colmare il gap accumulato nei confronti degli Stati Uniti. Investire il 70% delle sue risorse in agricoltura e politica regionale è una scelta che, soprattutto in vista dell'allargamento, l'Europa non può più permettersi. Quindi, a parità di bilancio europeo (oggi 1% del Pil Ue), le sue risorse dovrebbero essere riallocate su tre fondi: uno per favorire la crescita puntando su ricerca e sviluppo (0,25%del Pil Ue annuo), infrastrutture (0,125%) e istruzione (0,075). Un secondo Fondo di convergenza, per aiutare i Paesi più poveri a recuperare i ritardi, dovrebbe destinare lo 0,20% del Pil europeo ai nuovi Paesi membri che insieme rappresentano circa il 5% del Pil comunitario; lo 0,10% a Grecia, Spagna e Portogallo; infine lo 0,05% al Mezzogiorno e ai Länder tedeschi dell'Est per un periodo transitorio (2007-2011), visto che le loro dimensioni sono troppo significative rispetto a quelle dei rispettivi Paesi per escluderli immediatamente dai fondi comunitari. Infine un Fondo di ristrutturazione a favore dei lavoratori suddiviso in parti uguali (0,05% del Pil ciascuno) tra quelli dell'industria e quelli dell'agricoltura, con uno sportello (0,10) per gestire un periodo transitorio. Quanto al Patto di stabilità, si dovrebbe lavorare sulle «circostanze eccezionali e temporanee», le sole che oggi consentono di superare la barra invalicabile del 3% di deficit, per dare più margini di manovra ai bilanci dei Paesi di Eurolandia. Lo schema è indubbiamente anticonformista e intellettualmente stimolante. Resta da vedere quanta strada riuscirà a fare nel mondo reale di un'Europa dove le rendite di posizione sono tradizionalmente pressoché inamovibili, dove comunque non è certo facile cambiare modello di convivenza, anche finanziaria, proprio nel momento in cui vi approdano 10 nuovi Paesi che su quel modello hanno scommesso, puntando sulla solidarietà e non sul liberismo per recuperare i ritardi che si trascinano dietro.

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