Da Il Manifesto del 29/05/2003
Ma non è una Costituzione
di Ida Dominijanni
Con tutto il rispetto per Tucidide, venticinque secoli dopo l'Unione europea poteva inventarsi, in materia di democrazia, qualcosa di meglio della sua citazione che figura in testa alla bozza di preambolo approvata ieri dalla presidenza allargata della Convenzione per la Costituzione. Anzi, in tempi di crisi del parlamentarismo e di trionfo delle democrazie plebiscitarie, quella frase - «La nostra Costituzione è chiamata democrazia perché il potere è nelle mani non di una minoranza ma di tutto il popolo» - suona come un sinistro sintomo di come anche la giovane Unione stia per essere contagiata dal male che già afflige i suoi stati membri (nonché l'altra sponda dell'Atlantico): l'eclissi del parlamento a vantaggio dell'esecutivo, che si avoca tutti i poteri mentre proclama di attribuirli «al popolo intero». In fondo e neanche tanto in fondo, è questa la posta in gioco della partita che si sta giocando nel rush finale della Convenzione: il tasso di legittimazione e controllo democratico delle istituzioni dell'Unione. Perché se nascerà, come sembra ormai più che probabile, una Unione più intergovernativa che comunitaria, più centrata sul Consiglio che sulla Commissione, e ancorata al voto all'unanimità su questioni decisive come la politica estera, vorrà dire che avremo un'Europa configurata più come somma di stati nazionali che come comunità sovranazionale, e affidata più ai capi di governo che ai parlamenti e al suo parlamento. Ed è questa anche la posta in gioco dello scontro fra il presidente della Commissione Romano Prodi e il presidente della Convenzione Giscard d'Estaing, che con l'esternazione ateniese di Prodi si inasprisce non poco. L'ex presidente del consiglio italiano stavolta non ha usato toni felpati: se una Costituzione, parole sue, «manca di visione e di ambizione», non è solo «una delusione» e «un passo indietro»: più semplicemente, non è una Costituzione.
Prodi picchia sul merito della bozza ma anche sul metodo della Convenzione, ben sapendo che questo è l'ultimo momento utile per alimentare gli oppositori di Giscard già provati dal deficit di discussione interna che ha viziato tutto l'iter di questa Convenzione, a differenza di quella più collegiale e giuridicamente meglio attrezzata che diede alla luce la Carta dei diritti. L'ultima gaffe della presidenza Giscard, del resto, è proprio di ieri, se è vero che la proposta di preambolo è arrivata ai membri della Convenzione solo via agenzie di stampa. E non si tratta solo di mancanza di bon ton istituzionale: rinviare agli ultimi tre mesi l'esame di testi ed emendamenti, lasciare irrisolti fino all'ultimo tutti i nodi più spinosi può anche essere una tattica deliberata per costringere tutti, in corner, a prendere o lasciare.
Che cosa? Una Unione rappresentata da un presidente del Consiglio fisso e a tempo pieno, nella quale i poteri che contano restano ai governi nazionali, il sistema comunitario resta confinato al pilastro delle politiche economiche, ma tocca poco quello della cooperazione giudiziaria, e per nulla quello della politica estera. Che è esattamente il campo in cui, tanto più dopo l'esperienza della ex Jugoslavia prima e dell'Iraq poi, più urgente sarebbe la necessità di dare vita a una politica europea comune. Vero è che l'istituzione del ministro degli esteri, o come si chiamerà la figura che riunificherà i responsabili della politica estera della Commissione e del Consiglio, è un primo passo in avanti verso la costruzione della politica estera comunitaria. Ma è anche vero che di questa figura sono ancora incerti i rapporti col parlamento, e che nel suo insieme la politica estera rimane un'attività intergovernativa, senza controllo dei parlamenti nazionali né di quello di Strasburgo, e senza voto a maggioranza. Tradotto, ogni stato continuerà a fare partito per se stesso. Del resto, le resistenze a costruire un'Europa più comunitaria sono venute da tutti gli stati del nucleo fondatore, fatta eccezione per la Germania e il Belgio, con l'apporto attivo della svolta a destra dei governi italiano e spagnolo. Da cui la frustrazione degli stati più piccoli, tutti schierati contro Giscard.
Prodi invece avrebbe voluto, com'è noto, una Unione più comunitaria, con una Commissione più pesantedel Consiglio e dotata di un rappresentante per ognuno dei 25 stati, grandi e piccoli, che faranno l'Europa allargata, il voto a maggioranza esteso alla politica estera e un presidente del Consiglio a rotazione. Fra i due fronti la divisione dunque è netta, né Giscard ha usato toni di conciliazione ieri replicando a Prodi che è lui a mettere il bastone fra le ruote della Convenzione. Non spira aria di mediazione, e tre sessioni della Convenzione - tante ne mancano prima di Salonicco - non basteranno a trovare soluzioni efficaci né a smussare gli angoli. La tanto agognata firma sulla Costituzione che Silvio Berlusconi spera di far vergare in quel di Villa Borghese rischia dunque di slittare. Potrebbe essere una magra consolazioe rispetto alle smanie di onnipotenza del premier italiano, senonché può accadere di peggio. E cioè che pur di arrivare alla firma, il testo finale finisca col sommare tutti i difetti pur di addivenire a una mediazione fra stati grandi e stati piccoli, fautori del Consiglio e fautori della Commissione. In questo caso, è alla presidenza italiana del prossimo semestre che potrebbe toccare il ruolo di banditore di questo mercato politico. Quello che più si addice al cavalier Berlusconi, che è il destinatario dell'offensiva di Prodi quanto e più di Giscard, come ben sa Gianfranco Fini quando si precipita a trovare in Ciampi una sponda nella difesa della Convenzione.
Prodi picchia sul merito della bozza ma anche sul metodo della Convenzione, ben sapendo che questo è l'ultimo momento utile per alimentare gli oppositori di Giscard già provati dal deficit di discussione interna che ha viziato tutto l'iter di questa Convenzione, a differenza di quella più collegiale e giuridicamente meglio attrezzata che diede alla luce la Carta dei diritti. L'ultima gaffe della presidenza Giscard, del resto, è proprio di ieri, se è vero che la proposta di preambolo è arrivata ai membri della Convenzione solo via agenzie di stampa. E non si tratta solo di mancanza di bon ton istituzionale: rinviare agli ultimi tre mesi l'esame di testi ed emendamenti, lasciare irrisolti fino all'ultimo tutti i nodi più spinosi può anche essere una tattica deliberata per costringere tutti, in corner, a prendere o lasciare.
Che cosa? Una Unione rappresentata da un presidente del Consiglio fisso e a tempo pieno, nella quale i poteri che contano restano ai governi nazionali, il sistema comunitario resta confinato al pilastro delle politiche economiche, ma tocca poco quello della cooperazione giudiziaria, e per nulla quello della politica estera. Che è esattamente il campo in cui, tanto più dopo l'esperienza della ex Jugoslavia prima e dell'Iraq poi, più urgente sarebbe la necessità di dare vita a una politica europea comune. Vero è che l'istituzione del ministro degli esteri, o come si chiamerà la figura che riunificherà i responsabili della politica estera della Commissione e del Consiglio, è un primo passo in avanti verso la costruzione della politica estera comunitaria. Ma è anche vero che di questa figura sono ancora incerti i rapporti col parlamento, e che nel suo insieme la politica estera rimane un'attività intergovernativa, senza controllo dei parlamenti nazionali né di quello di Strasburgo, e senza voto a maggioranza. Tradotto, ogni stato continuerà a fare partito per se stesso. Del resto, le resistenze a costruire un'Europa più comunitaria sono venute da tutti gli stati del nucleo fondatore, fatta eccezione per la Germania e il Belgio, con l'apporto attivo della svolta a destra dei governi italiano e spagnolo. Da cui la frustrazione degli stati più piccoli, tutti schierati contro Giscard.
Prodi invece avrebbe voluto, com'è noto, una Unione più comunitaria, con una Commissione più pesantedel Consiglio e dotata di un rappresentante per ognuno dei 25 stati, grandi e piccoli, che faranno l'Europa allargata, il voto a maggioranza esteso alla politica estera e un presidente del Consiglio a rotazione. Fra i due fronti la divisione dunque è netta, né Giscard ha usato toni di conciliazione ieri replicando a Prodi che è lui a mettere il bastone fra le ruote della Convenzione. Non spira aria di mediazione, e tre sessioni della Convenzione - tante ne mancano prima di Salonicco - non basteranno a trovare soluzioni efficaci né a smussare gli angoli. La tanto agognata firma sulla Costituzione che Silvio Berlusconi spera di far vergare in quel di Villa Borghese rischia dunque di slittare. Potrebbe essere una magra consolazioe rispetto alle smanie di onnipotenza del premier italiano, senonché può accadere di peggio. E cioè che pur di arrivare alla firma, il testo finale finisca col sommare tutti i difetti pur di addivenire a una mediazione fra stati grandi e stati piccoli, fautori del Consiglio e fautori della Commissione. In questo caso, è alla presidenza italiana del prossimo semestre che potrebbe toccare il ruolo di banditore di questo mercato politico. Quello che più si addice al cavalier Berlusconi, che è il destinatario dell'offensiva di Prodi quanto e più di Giscard, come ben sa Gianfranco Fini quando si precipita a trovare in Ciampi una sponda nella difesa della Convenzione.
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