Da Corriere della Sera del 18/05/2004

«Un piano per lasciare l’Iraq prima possibile»

Verso una nuova strategia anglo-americana. Blair: «Ma non fuggiremo». Allo studio elezioni anticipate

di Ennio Caretto

WASHINGTON - L’America e la Gran Bretagna stanno lavorando a un piano di disimpegno dall’Iraq. Lo annuncia a Londra l’ufficio del premier Tony Blair e lo conferma velatamente il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca Condoleezza Rice, in visita a Berlino. «La nostra strategia - dice l’ufficio di Blair - è di mettere gli iracheni al controllo della situazione nel più breve tempo possibile e andarcene il più presto possibile. Miriamo a migliorarne l’addestramento e la preparazione». E, parlando al Times di Londra, aggiunge che questo «è un importante cambio di marcia».

«Non stiamo per scappare», precisa l’ufficio di Blair. Ma l’inatteso annuncio scuote la comunità internazionale. Tanto che, mentre è in viaggio in Turchia, il premier britannico smentisce che la coalizione sia alla ricerca di «una rapida via d’uscita» da Bagdad: «Rimarremo finché non avremo compiuto il nostro lavoro. L’assassinio di Izzedim Salim sottolinea quanto sia cruciale portare a termine la nostra missione». Ma sembra una smentita di facciata: mentre fino a poche settimane fa la coalizione si professava pronta a rimanere in Iraq per anni, l’enfasi dei suoi membri è ora sulla «exit strategy». Nessuno quantifica i tempi in cui potrebbe essere varata, ma alcuni esperti, come Daniel Pipes dell’Istituto del Medio Oriente, insistono affinché sia «nel giro di alcuni mesi».

Qualche segno che stanno rivedendo la loro strategia Bush e Blair lo hanno già dato. I due leader hanno disposto il rafforzamento dei sistemi di sicurezza iracheni. Bush ha affidato al generale David Petreus, il più stimato della guerra, l’incarico di dotare di esercito e polizia il nuovo governo che entrerà in carica a Bagdad dopo il 30 giugno. Ha inoltre autorizzato l’invio di 4 mila soldati americani dalla Corea in appoggio a quelli in Iraq, come riferito dal Pentagono. E Blair si accinge a prendere analoghe misure per stabilizzare il Paese in vista di un graduale disimpegno alleato. I cambiamenti politici sono stati ancora più palesi: il segretario di Stato Usa Colin Powell ha accennato alla possibilità (remota) che la coalizione si ritiri su richiesta del nuovo governo, e alla disponibilità ad accettare una teocrazia in Iraq.

Secondo il New York Times , il riesame dei piani anglo-americani è al momento confuso. Dopo avere ammonito che il governo iracheno avrebbe una sovranità limitata, la Casa Bianca sostiene adesso che le uniche limitazioni sarebbero «volontarie e concordate con la coalizione, con l’Onu e le nazioni arabe della regione». Le forze di sicurezza inoltre avrebbero il diritto di rifiutare di partecipare a certe operazioni militari, pur rimanendo sotto il comando Usa: Powell ha accennato a «meccanismi consultivi» senza scendere nei particolari. Soprattutto, dietro le quinte si dibatterebbe se le elezioni irachene previste per il prossimo gennaio non potrebbero essere anticipate. Un gruppo crescente di neoconservatori e di senatori moderati capeggiati dal repubblicano John McCain e dal democratico Joe Lieberman lo chiede pubblicamente.

A Londra, la Bbc osserva che il disimpegno, «più che una promessa, è una speranza», e che sembra legato ai problemi causati dall’Iraq a Blair, di cui i molti critici invocano le dimissioni. Ma poi ricorda che «i mutamenti di enfasi possono condurre a mutamenti di strategia». E’ il parere anche del pensatore neoliberal Michael Walzer, che è però contrario a un ritiro prematuro degli alleati dall’Iraq: «In una democrazia, alla fine vince sempre la pubblica opinione». A Washington se ne sta rendendo conto il partito repubblicano, che di fronte alla caduta di Bush nei sondaggi incomincia a spaccarsi in due. Alcuni suoi leader, timorosi di perdere il seggio al Congresso, chiedono al presidente di dare il via alla «exit strategy» prima delle elezioni americane di novembre.

A giudizio del generale Anthony Zinni, un protagonista della guerra del Golfo Persico del ’91, non è escluso che un sia pur lieve ripensamento dei due leader faciliti un accordo all’Onu. Se accettassero le proposte franco-russe per un reale passaggio dei poteri al governo iracheno, una funzione guida dell’Onu e una forza multinazionale di pace, le prospettive di disimpegno diverrebbero più concrete. Ma nonostante le ripercussioni negative dello scandalo delle torture, i falchi dell’amministrazione Bush, il ministro Donald Rumsfeld in testa, continuano a opporvisi.

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