Da La Repubblica del 07/08/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/h/sezioni/scienza_e_tecnologia/cancrosen...

L'intervento

2020, il cancro al seno non farà più vittime

di Umberto Veronesi

A chi si fosse affacciato sul mondo oncologico di 50 anni fa, lo spettacolo si sarebbe presentato desolante. I pazienti erano poco graditi negli ospedali, l'occultamento della diagnosi era la regola, la parola cancro era impronunziabile, la malattia era considerata per lo più incurabile. A queste condizioni, che riducevano il paziente a una persona con poco futuro, si aggiungeva un'ulteriore dolorosa esperienza: la terapia. Infatti, i medici di allora, di fronte ad una malattia grave, di cui sfuggivano le cause e di cui ignoravano quelle caratteristiche biologiche che potevano farne prevedere l'evoluzione, avevano assunto una posizione di implacabile aggressività.

Nell'incertezza veniva applicato il principio del "massimo trattamento tollerabile". Una chirurgia largamente mutilante, una radioterapia che "bruciava" i tessuti, una terapia ormonale violenta (una donna con tumore al seno veniva non raramente castrata e talvolta le venivano asportati surreni e anche l'ipofisi).

La chemioterapia, giunta successivamente, seguì purtroppo la stessa linea di pensiero: "massima dose tollerabile", con gli effetti collaterali che tutti conoscono, per poi scoprire che le alte dosi di chemioterapici non sono più efficaci di dosi più basse e più tollerabili. Che fare allora? Quando negli anni 60 si discusse della strategia futura, si decise di agire in due direzioni. La prima era anticipare la diagnosi e scoprire i tumori al loro esordio, quando sono ben curabili (e su questo punto eravamo tutti d'accordo) e la seconda era di ridurre l'entità dei trattamenti (e su questo punto eravamo d'accordo in pochissimi).

D'altronde si era creato un circolo vizioso, in quanto la paura della terapia era diventata un deterrente alla diagnosi precoce. Quante donne presentandosi a noi oncologi in ritardo, con un grosso tumore, si giustificavano dicendo "Avevo paura che mi togliessero il seno!". Il circolo vizioso andava quindi spezzato. Nacque così un movimento con l'obiettivo opposto al precedente : non più applicazione del "massimo trattamento tollerabile" ma ricerca del "minimo trattamento efficace".

Il movimento non ebbe vita facile. Venne vissuto come un modo per togliere lavoro ai chirurghi, ai radioterapisti , a molti medici e all'industria della sanità. Ma il principio era buono e i risultati delle terapie altrettanto.

Gli italiani furono tra i primi a offrire contributi importanti in diverse patologie e in particolare nella conservazione del seno. Uno studio importante, poi confermato dagli americani, negli anni '70 dimostrò, per i tumori di dimensioni limitate, l'inutilità dell'asportazione totale del seno (mastectomia), a favore di una terapia conservativa.

Rimaneva aperto il problema dei linfonodi ascellari. La chirurgia dei tumori mammari contemplava infatti da sempre, insieme all'asportazione del tumore al seno, quella di linfonodi situati nel cavo ascellare (dissezione ascellare). I linfonodi venivano asportati perché si sapeva che potevano essere già colpiti da metastasi clinicamente occulte . Tuttavia in una buona percentuale dei casi ( 60-70%) i linfonodi asportati risultavano sani anche all'esame microscopico ed il chirurgo scopriva quindi, soltanto dopo l'operazione, che l'intervento non era necessario. Da qui nacquero gli studi per scoprire un modo sicuro per identificare i casi in cui i linfonodi sono sani e per evitare, ove possibile, l'intervento all'ascella.

Si scoprì così, dopo studi sviluppati in molti paesi, ma in particolare in Italia e negli Usa, la tecnica dell'analisi del "linfonodo sentinella", cioè il linfonodo che per primo riceve la linfa dalla regione del seno dove è situato il tumore e che quindi è il primo ad essere - eventualmente- interessato da una metastasi. Si è dimostrato che il "sentinella" è in grado di "predire" lo stato di tutti gli altri linfonodi e quindi l'esame istologico di questo prezioso linfonodo, durante l'operazione chirurgica, permette all'oncologo di decidere, dopo aver asportato il tumore, se procedere o no con la dissezione ascellare.

La ricerca e l'asportazione del linfonodo sentinella divenne quindi oggetto di molti studi nel nostro paese e l'odierna pubblicazione apparsa sul New England Journal of Medicine conferma che questa nuova e semplice tecnica è valida ed è disponibile per tutti i chirurghi del mondo. Si calcola che 200.000 donne, nella sola Europa, potranno beneficiare di questa metodica con un migliore recupero generale dalla malattia, minor degenza in ospedale e, tra l'altro, un considerevole risparmio per la sanità pubblica.
Esiste poi un valore che va al di là della procedura in sé. Il sentinella, come tutte le nuove forme di chirurgia che tengono conto dell'integrità del corpo femminile, sta interrompendo quel circolo vizioso della paura, per innescare un circolo virtuoso. Stanno infatti motivando le donne, in massa, al controllo sereno e sistematico della propria salute, che a sua volta permette all'oncologo di intervenire, eventualmente, su una malattia che è curabile in quasi il 90% dei casi, con una chirurgia minimamente invasiva e attenta alla qualità di vita della donna.

Se questa partecipazione attiva del mondo femminile continuerà e se le strutture di diagnosi e cura si adegueranno agli standard avanzati oggi possibili, entro il 2020 possiamo pensare di ridurre la mortalità per tumori del seno a valori minimi.

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