Da Avvenire del 16/10/2007
Rifondare la comunità nazionale
A che cosa serve l'Italia nel mondo
di Andrea Riccardi

Più complicata è la stagione delle Settimane durante il fascismo. Molti sperano che il regime si possa 'cattolicizzare'. Ma realizzare un congresso pubblico sotto un regime autoritario è difficile. Saltano così le Settimane del ’31 per il conflitto sull’Azione Cattolica. Poi si rarefanno, per finire nel 1934. Con la ricostruzione postbellica, invece, torna il bisogno di idee. I cattolici, con la Dc voluta da De Gasperi e sostenuta da Montini, occupano una posizione politicamente centrale. Le Settimane si celebrano puntualmente su temi importanti. D’altra parte, sono proprio i cattolici in politica, insieme ad altri, ad attuare la più incisiva trasformazione della storia nazionale. Le visioni presenti all’interno del variegato mondo cattolico – tra politici, vescovi, militanti e intellettuali – non sono sempre identiche, ma prevale la volontà di essere insieme nella società. È quella volontà che si diluisce negli anni Sessanta, con il ’68, il Concilio, i grandi cambiamenti sociali. Le Settimane rallentano la loro cadenza e finiscono nel 1970.
Resta l’interrogativo sulla loro ripresa, dopo vent’anni, nel 1991: per discutere di cattolici italiani e Europa. Un congresso in più? Le risposte vanno trovate non tanto nella crisi della Dc, quanto nella visione di Giovanni Paolo II sull’Italia. Questo grande e lungo pontificato va ancora capito in profondità. Anzi, la sua comprensione rappresenta una sfida intellettuale alla pigrizia e al gusto dell’effimero che caratterizza tanti dibattiti.
Convinto del primato dell’evangelizzazione, papa Wojtyla pensava che il vivere cristiano avesse una profonda ricaduta sociale e storica. Aveva un’idea dell’Italia non condizionata dalle reticenze dei cattolici del non expedit o dalle preoccupazioni di quelli passati attraverso il governo democristiano. Per lui l’Italia doveva essere unita e vivere una sua missione particolare in Europa. Tanta parte di questa missione scaturiva proprio dal cristianesimo italiano, che era storia e non solo presente.
Ci sono tanti volti del bene comune di cui si deve discutere in un paese che affoga nel particolarismo. O forse si nasconde nel particolarismo, perché preso dalla paura e dallo spaesamento nella vertigine della globalizzazione. Ce n’è uno, però, che può sembrare scontato, ma è – almeno per me – fondamentale: dire a che cosa serve l’Italia, cos’è il nostro Paese nel mondo. Insomma, dire che c’è un bene comune in un paese che, in Europa e nel mondo, ha dignità di essere. È parlare di speranza, come ha fatto il convegno di Verona. È rispondere al languido spaesamento che ci prende, non con i fuochi d’artificio della cronaca politica. A sessant’anni dalla Costituzione, c’è forse bisogno di contribuire a rifondare la comunità nazionale con una visione che viene da lontano e che, senza ripiegarsi, va verso il futuro, una visione che attinge ad orizzonti, se non minacciosi, almeno aperti e imprevedibili. Parlare di bene comune è discutere con tutti. Ma è parlare di Italia, di comunità nazionale in Europa e nel mondo. Credendo di avere le risorse storiche, umane e culturali, per farlo. Soprattutto, perché se ne sente il bisogno.
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