Da La Repubblica del 27/11/2005

Quasi certo il rientro nel 2006 di 40mila effettivi. Ma per l'annuncio bisognerà attendere le elezioni del 15 dicembre

Iraq, Bush prepara il "ritiro soft"

Mercoledì rivendicherà i progressi, con l'ok dei democratici

di Alberto Flores D'Arcais

NEW YORK - Quando mercoledì mattina George W. Bush parlerà ai cadetti della US Naval Academy ad Annapolis (Maryland) il dibattito sulla guerra in Iraq entrerà in una nuova fase. Dopo settimane di sondaggi sfavorevoli al presidente, con un'opinione pubblica sempre meno convinta della guerra, con l'opposizione democratica all'attacco come non si vedeva da tempo e con mugugni crescenti anche all'interno del partito repubblicano, la Casa Bianca ha preso atto che quanto accade a Bagdad e dintorni sarà il leit-motiv della prossima campagna elettorale (elezioni di mid-term che rinnovano l'intera Camera dei deputati e un terzo del Senato, novembre 2006) e finirà per condizionare tutta l'attività di governo dell'amministrazione. E ha deciso di reagire.

Ad Annapolis Bush non dovrebbe annunciare decisioni clamorose - chi si aspetta che venga pronunciata la parola "ritiro" resterà probabilmente deluso - ma dalla base navale potrebbero arrivare alcune indicazioni su quali saranno le mosse americane nei prossimi mesi e una rivendicazione ad uso interno: l'America in Iraq sta vincendo.

Gli scenari previsti dagli strateghi della Casa Bianca e dai piani preparati al Pentagono sono diversi e la loro attuazione dipenderà in primo luogo da quanto accadrà il 15 dicembre in Iraq. In quella data i cittadini iracheni saranno chiamati nuovamente alle urne, questa volta per eleggere il Parlamento e di conseguenza gli uomini che saranno chiamati a governare il paese del Golfo nei prossimi, difficili, anni. I segnali sotterranei che arrivano a Washington sono incoraggianti. Mentre si dà per scontata, con l'avvicinarsi di quella data, una nuova ondata di violenze, si sono infatti moltiplicati gli approcci di alcuni leader degli "insurgents" sunniti con i politici iracheni (siano essi sciiti o curdi) e - nella massima segretezza - anche con i militari americani. Contemporaneamente nella capitale Usa diventa sempre più attuale l'ipotesi di un ritiro graduale delle truppe che porti il numero dei soldati americani in Iraq sotto la soglia dei centomila entro la fine del 2006.

Secondo quanto ha dichiarato al Los Angeles Times un alto funzionario del Pentagono, che ha lavorato con l'amministrazione Bush durante il primo mandato del presidente, c'è un «crescente consenso» bipartisan per fare sì che circa 40mila uomini vengano fatti tornare a casa prima delle elezioni di mid-term: «C'è in questo momento la convergenza di pressioni interne, pressioni irachene e i piani di ritiro del Pentagono: ed è una cosa seria». Una posizione, quella del ritiro graduale, anticipata dal Segretario di Stato Condoleezza Rice pochi giorni fa, che ha trovato larghi consensi tra i democratici moderati, quelli che avevano votato a favore della guerra e soprattutto quelli - come il senatore Joseph Biden, guru della politica estera del partito, e la senatrice Hillary Clinton - che ancora oggi ritengono che un ritiro in tempi brevi sarebbe un suicidio strategico per la politica di sicurezza Usa. Sia Biden che Hillary sono in corsa per la candidatura democratica alla Casa Bianca 2008 (si parla anche di un possibile "ticket" tra i due) ma non tutti i democratici la pensano allo stesso modo; un altro senatore che non nasconde la sua voglia di candidarsi nel 2008 (Russell Feingold del Wisconsin), forte del suo voto contrario alla guerra nel 2002, guida la numerosa pattuglia - che interpreta gli attuali sentimenti della maggioranza dell'elettorato democratico - di chi vuole fare del ritiro dall'Iraq il punto principale della piattaforma elettorale del partito dell'asinello e di far passare quanto accade oggi a Bagdad come una sorta di Vietnam degli anni Duemila.

Paragone rischioso, visto che le differenze tra il Vietnam e l'Iraq sono abissali: allora c'era la guerra fredda e i soldati Usa (tutti di leva) combattevano contro un esercito organizzato (quello del nord) e contro una guerriglia (i vietcong) finanziati e armati da Unione Sovietica e Cina. Oggi l'esercito Usa è composto da professionisti e il suo principale scopo è quello di addestrare il nuovo esercito iracheno. Su questo insisterà Bush per convincere l'opinione pubblica che in Iraq «l'America sta vincendo».

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