Da La Repubblica del 12/10/2005
Originale su http://www.repubblica.it/2005/b/rubriche/glialtrinoi/bilal/bilal.html

Il sogno infranto di Bilal Ibrahim

di Giovanni Maria Bellu

L'ingresso clandestino di Bilal Ibrahim in Italia era atteso da anni e, infatti, in tanti hanno gioito alla notizia del suo arrivo. Per comprenderne i motivi, bisogna immaginare il senso d'impotenza di chi raccoglie la testimonianza della vittima di un sopruso. Un immigrato ti dice di essere stato malmenato, un altro ti confida d'essersi sentito proporre una fuga a pagamento, un altro ancora ti racconta di un uomo in divisa che bestemmiava Allah. E tu sai benissimo che quella storia, benché ti sia apparsa del tutto vera, non potrai renderla pubblica. Sia perché il tuo testimone ha troppa paura di ritorsioni per accettare di esporsi, sia perché, nel caso in cui questa disponibilità esistesse, avresti la parola di un immigrato, per giunta "clandestino", contro quella di una qualche piccola o grande "autorità".

E' in quei momenti che cominci a sperare nell'arrivo in Italia di Bilal Ibrahim, cioè di un immigrato che possa parlare senza paura e sia così autorevole e attendibile da poter fronteggiare, con la sua parola, le inevitabili smentite dei suoi aguzzini. A sperare o, meglio, a sognare. Perché, non appena ci rifletti, ti rendi conto che quel genere d'immigrato non esiste. Chi è nelle condizioni di parlare (quindi è tornato in libertà e si trova ancora in Italia) ha ben altri problemi da risolvere, a partire da quello della sussistenza, e preferisce dimenticare le angherie subite.

Allora è chiaro perché in tanti hanno accolto l'arrivo di Bilal con una gioia che non è stata offuscata dal fatto che, in realtà, non era l'immigrato eroico e autorevole tante volte sognato ma solo un giornalista coraggioso. Davanti ad un reportage come quello di Fabrizio Gatti dall'interno del Centro di permanenza temporanea di Lampedusa, anche l'amico George W. Bush avrebbe riconosciuto nel collega dell'Espresso un candidato al Pulitzer.

Qua da noi, invece, una delle prime reazioni è stata quella di Alberto Di Luca, deputato di Forza Italia, il quale ha ricordato che "introdursi illegalmente in un Cpt è un 'reato penale' (sic) che viene perseguito d'ufficio, a norma di legge". Fabrizio Gatti lo sapeva benissimo quando ha deciso di diventare Bilal Ibrahim. E questo rende ancor più encomiabile il suo gesto.

Abbiamo letto il reportage con lo stesso senso di sollievo di chi, in un processo ingiusto, vede levarsi in piedi il testimone oculare che inchioda il vero colpevole. Ma anche con la speranza che, a partire dal racconto della vita quotidiana all'interno del Centro, cominciasse in Italia una riflessione seria sulla natura di questi istituti, sulla necessità di chiuderli o di trasformarli in modo radicale per renderli compatibili con quanto è scritto nelle costituzioni di tutto l'Occidente, compresa la nostra, oltre che nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.

La speranza era fondata su un'altra speranza: che, anche quando lo scontro politico è duro, violento, asperrimo, sopravviva un terreno comune di valori di civiltà. E che quindi sul problema-immigrazione esistano dei principi di base condivisi, a partire da quello del rispetto della dignità della persona. Questa del "terreno comune" è una questione che nel centrosinistra viene dibattuta fin dalla prima vittoria di Berlusconi.

Il riconoscerne o meno l'esistenza marca il confine tra le posizioni "dialoganti" e quelle di chi ritiene che, tra leggi ad personam e altre ignominie, un dialogo con l'ex maggioranza ancora al governo sia impossibile. In definitiva, il reportage di Fabrizio Gatti offriva, oltre che una circostanziata denuncia di una situazione vergognosa, anche un'occasione di verifica della possibilità del dialogo. Il sognare l'arrivo di Belil, in parte coincideva col sogno di un paese normale.

A rafforzarlo, questo sogno, c'era una considerazione di merito: chiunque avesse una conoscenza anche approssimativa dei Centri di permanenza temporanea e delle regole del giornalismo non avrebbe avuto dubbi sulla veridicità del racconto. Non solo perché quanto Gatti ha visto corrisponde a quanto tanti immigrati hanno in questi anni raccontato e confidato, ma anche per l'evidenza di un fatto professionale: è del tutto evidente che il giornalista ha compiuto lo scoop nello stesso momento in cui è riuscito a infiltrarsi stabilmente nel Centro. Solo un pazzo, dopo aver ottenuto un simile risultato, l'avrebbe messo a rischio raccontando circostanze inventate.

Purtroppo, il sogno del paese normale ha cominciato a vacillare quando l'Espresso era in edicola da poche ore. Pippo Fallica, un deputato di Forza Italia, ha diffuso questa dichiarazione categorica: "Nessun diritto è stato mai leso all'interno delle strutture di accoglienza di Lampedusa". Poi è stata la volta del capogruppo della Lega Nord al Senato, Ettore Pirovano, secondo il quale il collega Gatti, con la sua inchiesta, ha fatto "un bel regalo ad Al Qaida".

Non poteva mancare l'europarlamentare Mario Borghezio (quello che chiama gli immigrati 'facce di merda') il quale, a dire il vero con inusuale moderazione, ha affermato di 'cascare dalla nuvole'. Il colpo finale è arrivato alle 18,07 col lancio Ansa di una dichiarazione di Roberto Castelli. Questi, come è noto, non è solo un esponente della Lega Nord ma anche un ministro della Repubblica, e non un ministro di secondo piano visto che regge, diciamo così, il dicastero della Giustizia. "Non credo a quanto affermato dal giornalista de 'L'Espresso', del resto da un giornale nel cui Cda siede qualcuno che ha frequentato le patrie galere ed è reo confesso di aver pagato tangenti non ci si può aspettare la correttezza di informazione".

L'aspetto più straordinario di queste reazioni è come, nel loro combinato disposto, abbiano il potere di trasferire nei palazzi della politica quel clima malsano di conventicola cialtrona che Gatti ha raccontato dall'interno del Cpt di Lampedusa. Quella complicità fellona tra uomini in divisa che ridacchiano davanti alla bravata del collega sadico che mostra il film porno a un giovane musulmano praticante. Quello scambiarsi sguardi, ammiccamenti, gomitatine ignorando del tutto gli argomenti e anche i diritti dell'interlocutore: la mimica del familismo immorale portata nelle istituzioni.

Così, nel giro di poche ore, il sogno del paese normale e la speranza di un miracolo di Bilal Ibrahim si sono infranti, la nuda realtà si è riproposta in tutto il suo squallore. Con una sola consolazione: un altro pezzetto del dubbio sull'esistenza di quel famoso "terreno comune" è scomparso. Con simili interlocutori l'unico dialogo possibile si riduce a poche parole, le stesse che Castelli, Borghezio e compagnia rivolgono da sempre agli immigrati: "L'Italia non può permettersi la vostra presenza. Per pietà, andatevene a casa".

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