Da La Stampa del 01/09/2005

La guerra incivile

di Igor Man

Se è vero che a seminare il panico assassino sia stato un «terrorista», come afferma il ministro dell’Interno iracheno, quello della moschea dedicata al settimo imam sciita, al Khadim, è il più grave attentato del dopoguerra in Iraq. Sette colpi di mortaio addosso ai devoti, la fuga in massa verso il ponte di al Aimmah già chiuso «per motivi di sicurezza», la calca che ne è seguita avrebbero provocato «almeno mille morti», perloppiù donne e bambini. Secondo gli esperti, siamo a una svolta nella strategia della guerriglia. Il massacro ha esasperato la rissa verbale fra la minoranza sunnita che ha bocciato la bozza di Costituzione, e la maggioranza sciita arsa da sete di vendetta: durante la dittatura di Saddam (sunnita) gli sciiti han vissuto da underdogs. La bozza della Costituzione non è «americana» né araba ma un frullato di contraddizioni. Confidando nel prossimo referendum per ribaltare la situazione, i sunniti hanno scatenato una massiccia campagna contro l’astensionismo predicato e praticato alle elezioni legislative. Al mitico Brooking Institution prevedono crescenti difficoltà per gli americani, concludendo, icasticamente: o i sunniti riescono ad affossare la bozza costituzionale ovvero, se il draft passerà, «ci troveremo di fronte a una guerra civile».

Ma la guerra c’è già. Non è «civile» ma è contro la società civile irachena. Quella che fa camminare la macchina-paese: dal maestro elementare che va a insegnare in bicicletta ai contractors in limousine scortati da implacabili «gorilla». Ogni tanto scoppia una bomba rinforzata da chiodi quando non è il terrorista suicida a triturare innocenti scolari o madri di famiglia.

Gli iracheni sono arabi un po’ diversi da tutti gli altri: hanno un senso del dovere prussiano, non sono sfaticati, sono nazionalisti come lo furono al tempo della «presenza britannica» che vide terrorismo e repressione avvitarsi durante anni e anni. Con le debite proporzioni, il vissuto degli iracheni terribilmente somiglia a quello del passato, remoto e recente. A render precaria la vita degli iracheni concorrono fattori diversi con in cima l’insicurezza. Duole dirlo ma l’attuale caos (ancorché esorcizzato dall’impegno della società civile) è figlio degli errori degli Stati Uniti. Ignorando il parere (per altro richiesto) degli Alleati, gli Usa han sciolto l’esercito iracheno in quattro e quattr’otto col risultato di aver tra i piedi una armata Brancaleone mesopotamica, affamata ma armata e dunque violenta.

Han sciolto dall’oggi al domani il Baath, il partito unico che seppure ideologicamente nullo regolava la vita civile: dalla distribuzione delle derrate al flusso petrolifero, gettando sul lastrico mille e passa «quadri», spegnendo un capillare indotto.

La stragrande maggioranza degli iracheni non amava Saddam e i suoi animaleschi figli, erano in molti a odiarlo ma un po’ tutti lo rispettavano. Gli americani han fatto una guerra innovativa, da manuale, ma hanno sciupato tutto isolandosi dagli iracheni. Se nelle loro copiose salmerie avessero messo tecnici del traffico, ospedali da campo e specializzati, se si fossero preoccupati subito degli approvvigionamenti avrebbero fatto breccia nel cuore e nella mente degli iracheni, affamati di libertà, di vita normale. Invece no, han ripetuto gli stessi funesti errori commessi in Vietnam. Come stupirsi, ora, della cosiddetta «guerriglia nazionalista» che ha spianato la strada ai satanici terroristi di Bin Laden, se poco o nulla s’è fatto per ridurre i danni d’una politica supportata da una presunzione forse un po’ razzista?

L’Occidente democratico e pragmatico non può assistere allo sfascio americano limitandosi a criticare in attesa d’una decente exit strategy. Lasciar soli gli americani non si può, non fosse altro perché è vietato gettare nella spazzatura un paese intero che altro non sogna se non una vita decente. Noi italiani abbiam fatto, stiamo facendo la nostra parte: oltre ai soldati a Nassiryia, abbiamo eseguito e continuiamo grandi lavori pubblici che risanano le fertili marcite popolate dagli sciiti.

Non è facile ma l’America ha ancora la possibilità di scongiurare una sconfitta politica gravida di perniciose conseguenze per tutti. Dal pantano iracheno si esce con l’indispensabile fermezza condita, però, d’un pizzico di umiltà.

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