Da La Repubblica del 04/06/2005

A due settimane dalle presidenziali il nome del vincitore è noto. Ma il futuro è carico d'incognite

Iran, la rivoluzione in agonia punta sul vecchio Rafsanjani

Una bomba demografica minaccia la teocrazia

L'uomo che succederà a Khatami guida l'ala dei conservatori "pragmatici"
Per salvare l'economia avrà bisogno di finanziamenti, e di riavvicinarsi agli Usa
Dei 70 milioni di iraniani due terzi hanno meno di trent'anni, e quasi la metà non arriva ai 16

di Guido Rampoldi

TEHERAN - NEI grandiosi murales da cui sorveglia Teheran l'ayatollah Khamenei ha il turbante nero che spetta ai discendenti del Profeta, gli occhiali con la montatura quadra e un sorriso che vuol essere bonario ma risulta furbo. Però il Khamenei di piazza Fatemi, tra l'ottavo e il decimo piano d'un grattacielo bianco, non sorride affatto e scruta i passanti con grandi occhi senza ciglia, come di gufo. Per un effetto pittorico certo voluto, in qualunque punto della piazza ci si trovi s'incontra sempre quello sguardo puntuto, cui nulla sfugge.

Cosa vede la Guida suprema con i suoi occhiali enormi? Vede un oceano di giovani: ed è questo che adesso deve inquietarlo. Non tanto perché nelle elezioni presidenziali del 17 giugno questa gioventù gli dirà nelle urne che il Paese non lo segue, chi astenendosi chi bocciando i suoi candidati. E neppure è fondamentale quanto lamenta un giornale a lui fedelissimo, Ya lesserat: «Il dilagare di ragazze senza velo, mantelle con maniche corte, visi sepolti sotto il trucco, esibizione di chiome, pantaloni sotto al ginocchio, feste consacrate alla corruzione morale, sta contaminando tutte le cellule del regime come una metastasi». Certo tutto questo preoccupa l'ayatollah supremo, così come il fatto che la borghesia dia ai figli non più nomi islamici, ma persiani (Ciro, Dario, Serse) e abbondino perfino i Maziar, come il seguace di Zoroastro che guidò la rivolta contro i conquistatori musulmani.

Ma neanche questo nuovo trend "pagano" è decisivo. Quel che conta davvero ha l'esattezza d'una formula matematica.

Dei 70 milioni di iraniani due terzi hanno meno di trent'anni, quasi la metà non arriva ai 16. Conseguenza: un'onda demografica del tutto anomala si sta abbattendo sull'economia iraniana, già ora incapace di assorbire la metà dei 900mila giovani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro. Per creare milioni di posti, e per ammodernare un'industria vecchiotta, l'Iran ha bisogno di cospicui investimenti stranieri (17 miliardi di dollari l'anno, secondo alcune stime).

Poiché i grandi investitori sono in gran parte occidentali, la razionalità vuole che la Repubblica islamica dell'Iran venga a patti col diavolo, gli Stati Uniti. E cioè esca dalla propria pelle, riformuli la propria identità e il proprio posto nel mondo, di colpo rinunci al nemico col quale è nata.

Ufficialmente si tratta di salvare la rivoluzione khomeinista, non di certificarne il decesso. O così almeno pretende anche la fazione dei conservatori "pragmatici" di Hachem Rafsanjani, stando ai sondaggi il prossimo presidente dell'Iran. Rafsanjani è l'unico dignitario del regime che per influenza e curriculum rivoluzionario possa tener testa alla Guida. Inoltre accoppia sapienza islamica e abilità negli affari, così da meritare il doppio titolo di re del pistacchio e hojatolislam (all'incirca un monsignore della gerarchia sciita). I conservatori fedeli a Khamenei lo considerano un opportunista, l'opposizione un personaggio sinistro. Gli occidentali non dimenticano le dichiarazioni forsennate che colorano la sua lunga carriera politica. Però s'è circondato di tecnocrati e anche molti che lo detestano - in Iran come a Washington - adesso sperano che diventi presidente. La ragione è spiegata esattamente da uno studente di relazioni internazionali, Mohammed Mohaddad, 26 anni, che incontriamo nel quartier generale dei "pragmatici": «Rafsanjani è un capitalista, ci porterà nel mondo globalizzato e normalizzerà le relazioni con gli Stati Uniti. Sono la maggiore potenza mondiale, dobbiamo farci i conti».

La chiamano "la via cinese", ma solo per il fatto che accoppierebbe repressione e liberalizzazione dell'economia.

Comunque alla Guida non piace. Sa che se divenisse presidente Rafsanjani riprenderebbe il dialogo sotterraneo con Washington, magari con gli stessi Republicans con i quali vent'anni fa organizzò lo scambio armi-ostaggi poi divenuto lo scandalo Iran-contra. E in Iraq vedremmo limitate convergenze tattiche con gli americani, forse già abbozzate sul terreno nelle ultime settimane.

Nulla alla luce del sole. Ma all'orizzonte apparirebbe, sia pure molto remoto, il Grand bargain, il grande baratto inutilmente cercato dall'amministrazione Clinton, in cui tutto sarebbe sul tavolo: Iraq, embargo americano, programma nucleare iraniano, accesso di Teheran all'organizzazione mondiale del commercio, ruolo iraniano nel conflitto arabo-israeliano. La Guida teme cedimenti.

«Qualsiasi cosa i nemici desiderino, dovremmo fare il contrario», ha detto la scorsa settimana parlando ai suoi fidi paramilitari. Poi li ha invitati a tenere alta la guardia per impedire le subdole infiltrazione del nemico nelle difese militari e nell'identità dell'Iran.

In teoria la Guida è onnipotente: i suoi seicento consiglieri e duemila delegati controllano gli apparati militari e paramilitari, gli spionaggi, le carceri segrete, la magistratura, il clero, la politica estera, insomma tolta l'economia, tutto ciò che conta. Nella pratica i maggiori centri decisionali sono, tra formali e informali, undici secondo un calcolo. E il regime appare molto più fratturato di quanto lo vorrebbe il suo ordinamento.

Perfino ai conservatori intelligenti, rari, risulta evidente che Khamenei non ha proprio nulla da dire ai due terzi degli iraniani, quelli nati dopo la rivoluzione khomeinista. È un vecchio, un sopravvissuto. Non è mai stato all'estero, non guarda tv satellitari, sa nulla del mondo. Considera l'Occidente una sentina di vizi, così come noi consideriamo l'Iran un Paese di spiritati che passano il tempo a flagellarsi e a bruciare bandiere americane.

È un teologo, ma in quel campo ora è sovrastato dal Grand'ayatollah apparso in Iraq, Sistani. Quest'ultimo non ha devoti in Iran: però la sua autorità incoraggia il clero iraniano a contestare il principio cardinale del sistema khomeinista, l'idea che al vertice del Paese debba sedere un giureconsulto sciita scelto da altri sapienti della stessa fede. «Governare non è un nostro dovere, e se il popolo non vuole neppure un nostro diritto», ci ha detto un hojatolislam incontrato al raduno per l'unico avversario reale dei conservatori, il "riformista radicale" Mostafa Moin.

Se poi aggiungiamo che i conservatori sono una minoranza nel Paese, è facile capire che il regime adesso ha un enorme problema di legittimazione. E un dilemma. Se si mostra troppo brutale, la gente, già delusa dai "riformatori" del presidente uscente Khatami, non vota: e allora le elezioni diventano un referendum contro il sistema. Se però rinuncia all'uso illegale della forza, viene travolto. Inoltre arriva diviso a queste elezioni presidenziali, di qua il "pragmatico" Rafsanjani, di là i quattro candidati fedeli alla Guida.

Questi ultimi rappresentano il tentativo di vendere un'immagine più accattivante, più "giovane", d'una teocrazia dall'immagine cupa e penitenziale.

I quattro si sforzano di apparire affabili, sorridenti, quasi ilari. Nessuno di loro appartiene al clero. Tutti giovani o giovanilisti. Tutti a parole "riformisti", sembra l'Italia. Tutti grossomodo populisti.

Tutti inclini a parlare spesso di Iran, quasi mai di islam. Dei quattro il più alto nei sondaggi è l'elegante Baqer Qalibaf, fino a ieri capo della polizia. I suoi manifesti promettono «Aria nuova» e lo mostrano insieme ad una sostenitrice, oibò, truccata.

Ma quanto più il regime si allontana dalla sua vecchia identità, tanto più perde coesione. Non è riuscito a produrre una candidatura unica. Non ha una scelto una direzione. Dopo cinque anni di discussione ha convenuto su un documento, «Prospettive per il prossimo ventennio», in cui si ripromette di cambiare per contenere la marea demografica (a proposito: curioso che nello sciocchezzaio europeo la demografia figuri come l'arma segreta dell'islamismo). Ma la vecchia guardia è paralizzata dalla paura che tutto le scappi di mano, come ci confermano dall'interno. Il sistema appare sempre più un prodotto casuale, irrisolto: dentro il totalitarismo è cresciuta un po' di democrazia; dentro l'internazionalismo che voleva esportare la rivoluzione islamica un'idea "persiana" dell'interesse nazionale. Un po' come la capitale: nell'estremo sud quei grandi sciami di rondini, le donne in chador; ma poi risali verso la montagna, verso i quartieri benestanti, e trovi uno stile di stile di vita opposto: il vino armeno in frigo, i cd dei film stranieri non autorizzati, la parabolica, l'emancipazione, le feste sfrenate, la lontananza dalla religione e dalla sua morale.

Ma da quando è apparsa la nuova generazione "rivoluzionaria", l'autoritarismo senza turbante, si può prevedere almeno una tendenza sociale: quel ceto medio sfrutterà la propria vicinanza a Stato e parastato per arricchirsi, del resto ha già cominciato; e dilapiderà l'unico asset della rivoluzione, una certa disciplina morale. Bene o male lo Stato non è corrotto e sgangherato quanto altri Stati dell'area. Anche tra i conservatori si può ancora trovare un intellettuale onesto come Amir Moebian. E perfino tra i paramilitari che sorvegliano la società iraniana, i Basiji, ci si può imbattere in un Mahmud Parsa, 42 anni, impiegato. Basij in un quartiere povero di Teheran, Parsa rimpiange i tempi in cui la milizia era autorizzata a strapazzare fidanzatini sorpresi mano nella mano; ma a parte questa sua ossessione, ritiene che il dovere del Basij non sia pestare studenti, la vocazione di molti suoi commilitoni, quanto «essere buono e generoso». A questo si applica con lo stesso zelo con sui si addestra all'eventualità di un'invasione americana.

Amati dalla Guida, i Basiji ("Pronti") sono i sanculotti della rivoluzione. Vent'anni fa salvarono l'Iran dall'invasore iracheno, pagando un prezzo enorme in termini di morti e mutilati. Uno di loro è il protagonista del film che descrive meglio l'Iran attuale, «Oro rosso» del regista Djafar Panahì, apparso in cd solo nel mercato clandestino.

Il Basij di «Oro rosso» fa consegne a domicilio nella capitale, viene in contatto con i rivoluzionari che ammirava, scopre che sono diventati un'arrogante classe d'arricchiti. Finirà suicida in una gioielleria. È la parabola d'una rivoluzione che muore malamente, nella disillusione più amara.

Se la Guida che tutto sa e scruta vede anche questo, allora la sua ira dev'essere sconfinata. La rivoluzione va a ramengo proprio mentre è nelle condizioni di realizzare la promessa di Khomeini che è scritta da un quarto di secolo sul muro esterno dell'ex ambasciata statunitense: «Infliggeremo all'America una sconfitta severa». Adesso l'America è oltre la frontiera, 150mila soldati statunitensi in un territorio, l'Iraq, dove Teheran ha poderose leve politiche e militari, come ci ripetono anche analisti lontani dai "conservatori". Può scaraventare di tutto oltre la frontiera, agevolata dalla geografia. Ha rapporti storici con ogni gruppo armato, con l'ayatollah Sistani, con i politici sciiti che ora guidano il governo iracheno. «Possiamo scatenare l'inferno», ci dirà più d'uno. Ricacciare Satana, diventare i vietcong dell'islam, rilanciare la rivoluzione mondiale... la vecchia guardia ritroverebbe d'incanto una missione, un ruolo internazionale, una legittimazione interna.

La tentazione dev'essere enorme.

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