Da Il Mattino del 19/11/2003
Lacrime e silenzio, il dolore di Nassiriya
di Vittorio Dell'Uva
NASSIRIYA - Tutto, d’improvviso, diventa sommesso. I rumori e le voci tendono a spegnersi nella grande tenda in cui è allestita la mensa che è anche un luogo di incontro. La tv satellitare rimanda dalla basilica di San Paolo le immagini del dolore e del lutto. L’intensità del rito rende struggente il ricordo dei commilitoni caduti. Non c’è fragilità nel caporale che piange in un angolo. È l’amarezza che rende pesante il respiro. Le donne-soldato, che siedono a un tavolo, trovano che è stato consumato insieme un tradimento e un massacro. Anita Mauro, di Nola, aggregata al reggimento genieri di Udine, ne parla con Antonia Madonna che per indossare la divisa ha lasciato Santa Maria Capua Vetere.
Le donne si dicono che «è terribile pensare che tanti italiani sono morti per soccorrere un popolo che ha bisogno di aiuto». Don Gigi Aroffo, il cappellano capo del 151.mo reggimento della Sassari, recita una preghiera per i genitori impietriti e in lacrime i cui volti scorrono su uno dei video. È appena toccato a lui, sulla piazza d'armi di «White horse», la base degli italiani, leggere il De Profundis nel corso di una breve commemorazione ufficiale. «Fa, Signore - ha invocato - che i nostri caduti siano un esempio per tutti».
Nell'accampamento di Nassiriya era mezzogiorno in punto quando ogni attività si è fermata. Le note del silenzio si sono sprigionate a lungo da una tromba con le insegne della brigata. Ad un passo dal tricolore a mezz'asta, il comandante del contingente generale Bruno Stano, sull'attenti ed immobile, osservava i plotoni che rappresentavano ogni reparto. Non mancavano le rappresentanze di americani, inglesi, rumeni e dei portoghesi appena arrivati per integrare le forze della MSU, la polizia militare. Tutti per cinque minuti si sono stretti in raccoglimento prima che l'inno della brigata esplodesse come un grido liberatorio. Non c'erano discorsi da pronunciare, ma soltanto da ribadire un impegno che la tragedia non ha nemmeno scalfito. «Non c'è modo migliore per rendere onore alla memoria di quanti tra noi hanno perduto la vita», dirà qualche minuto più tardi il generale Stano ai suoi ufficiali riuniti nella sala comando. Ma già sapeva di non dovere sollecitare risposte. Dal 12 novembre non una sola operazione sul terreno è stata sospesa o ha subito rallentamenti. Anzi si è andati ancora più avanti senza rischiare l'impatto con la sensibilità dei civili cui non si vuol far pagare un massacro compiuto da altri. «Non avrebbe alcun senso, la popolazione di Nassiriya ci è stata vicina con i fiori di plastica portati al comando e le centinaia di biglietti di condoglianze, anche anonimi, che ci sono arrivati», dice il sottotenente Giovanni Parigi che, per la sua conoscenza dell'arabo, è delegato ai contatti con gli sceicchi locali.
La solidarietà è fatta anche di altri atti significativi e concreti. Un uomo di trent'anni, Hassan, ha raggiunto ieri la base di «White horse» dicendo che, grazie a lui, gli italiani «correvano un pericolo in meno». Aveva da consegnare un lanciarazzi SA7 «armato», cioè pronto ad essere usato e che avrebbe potuto abbattere un elicottero o forare la corazza di un carro. Ha sostenuto di averlo trovato abbandonato in un campo. La presenza di armi leggere e pesanti comincia, a Nassiriya, ad apparire frequente e inquietante, come le trame che sarebbero emerse dopo il fermo da parte dei carabinieri delle quattro persone che avrebbero potuto svolgere il ruolo di fiancheggiatori dei kamikaze. Ieri i sospettati sono stati consegnati ad altre forze della coalizione in quanto su di loro gravano indizi pesanti. Non soltanto avrebbero collaborato ad un attentato compiuto a Baghdad, ma si ritiene che fossero sul punto di organizzarne un altro proprio a Nassiriya. Che si muovessero «senza rete» è molto improbabile. Più che mai la città e l'intera provincia va tenuta sotto controllo. Piccole e grandi sfide possono ancora minacciare la sicurezza del contingente.
Proprio nelle ultime ore, un rastrellamento in un quartiere del centro ha portato alla scoperta e al sequestro di tre lanciagranate RPG, di cinque piccoli razzi e di una pistola. Erano a bordo di un'auto fermata in un posto di blocco. I tre uomini che li custodivano avranno molto da spiegare alla polizia locale cui sono stati affidati. L'operazione è apparsa legata anche ad un allarme scattato nel cuore della notte e che aveva fatto temere un attacco al «Janoob», il piccolo albergo del centro che ospita i giornalisti italiani. La voce che quattro auto sospette si aggirassero per la via della città, e che una di esse fosse pronta a esplodere, aveva spinto la direzione dell'hotel a bloccare la strada, mettere in campo una decina di guardie armate e soprattutto a chiedere la protezione del contingente italiano. Da ieri anche raggiungere il «Janoob» è diventato un tantino più arduo.
Le donne si dicono che «è terribile pensare che tanti italiani sono morti per soccorrere un popolo che ha bisogno di aiuto». Don Gigi Aroffo, il cappellano capo del 151.mo reggimento della Sassari, recita una preghiera per i genitori impietriti e in lacrime i cui volti scorrono su uno dei video. È appena toccato a lui, sulla piazza d'armi di «White horse», la base degli italiani, leggere il De Profundis nel corso di una breve commemorazione ufficiale. «Fa, Signore - ha invocato - che i nostri caduti siano un esempio per tutti».
Nell'accampamento di Nassiriya era mezzogiorno in punto quando ogni attività si è fermata. Le note del silenzio si sono sprigionate a lungo da una tromba con le insegne della brigata. Ad un passo dal tricolore a mezz'asta, il comandante del contingente generale Bruno Stano, sull'attenti ed immobile, osservava i plotoni che rappresentavano ogni reparto. Non mancavano le rappresentanze di americani, inglesi, rumeni e dei portoghesi appena arrivati per integrare le forze della MSU, la polizia militare. Tutti per cinque minuti si sono stretti in raccoglimento prima che l'inno della brigata esplodesse come un grido liberatorio. Non c'erano discorsi da pronunciare, ma soltanto da ribadire un impegno che la tragedia non ha nemmeno scalfito. «Non c'è modo migliore per rendere onore alla memoria di quanti tra noi hanno perduto la vita», dirà qualche minuto più tardi il generale Stano ai suoi ufficiali riuniti nella sala comando. Ma già sapeva di non dovere sollecitare risposte. Dal 12 novembre non una sola operazione sul terreno è stata sospesa o ha subito rallentamenti. Anzi si è andati ancora più avanti senza rischiare l'impatto con la sensibilità dei civili cui non si vuol far pagare un massacro compiuto da altri. «Non avrebbe alcun senso, la popolazione di Nassiriya ci è stata vicina con i fiori di plastica portati al comando e le centinaia di biglietti di condoglianze, anche anonimi, che ci sono arrivati», dice il sottotenente Giovanni Parigi che, per la sua conoscenza dell'arabo, è delegato ai contatti con gli sceicchi locali.
La solidarietà è fatta anche di altri atti significativi e concreti. Un uomo di trent'anni, Hassan, ha raggiunto ieri la base di «White horse» dicendo che, grazie a lui, gli italiani «correvano un pericolo in meno». Aveva da consegnare un lanciarazzi SA7 «armato», cioè pronto ad essere usato e che avrebbe potuto abbattere un elicottero o forare la corazza di un carro. Ha sostenuto di averlo trovato abbandonato in un campo. La presenza di armi leggere e pesanti comincia, a Nassiriya, ad apparire frequente e inquietante, come le trame che sarebbero emerse dopo il fermo da parte dei carabinieri delle quattro persone che avrebbero potuto svolgere il ruolo di fiancheggiatori dei kamikaze. Ieri i sospettati sono stati consegnati ad altre forze della coalizione in quanto su di loro gravano indizi pesanti. Non soltanto avrebbero collaborato ad un attentato compiuto a Baghdad, ma si ritiene che fossero sul punto di organizzarne un altro proprio a Nassiriya. Che si muovessero «senza rete» è molto improbabile. Più che mai la città e l'intera provincia va tenuta sotto controllo. Piccole e grandi sfide possono ancora minacciare la sicurezza del contingente.
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