Da Corriere della Sera del 14/11/2003

Grazie, maresciallo

di Enzo Biagi

In questi casi si comincia con la contabilità: 14 carabinieri, 3 soldati dell’esercito, 2 civili: tutti morti. Poi ci sono i feriti: molti anche iracheni, e una grande fossa scavata dal camion carico di esplosivo. Una bomba sotto il cielo dell’Iraq: laggiù i nostri erano in missione di pace. Hanno trovato quella dei morti. Poveri ragazzi nati nella provincia italiana, caduti in un posto di cui prima che glieli mandassero, ignoravano anche il nome: Nassiriya. Alcuni alla vigilia di tornare a casa: torneranno avvolti nella bandiera e per loro una tromba suonerà un silenzio che non avrà più fine.

Non so perché, ma mi viene in mente che quando ero al mio paese le autorità, oltre al podestà, erano il medico e il maresciallo dei carabinieri. Mi affascinava, col mantello foderato di rosso, il pennacchio colorato che metteva nelle grandi ricorrenze. Il mio modello non era il capo G.Man, quell’omone agente dell’Fbi che si vedeva nei film americani, che distruggeva da solo pericolose bande di gangster inseguendoli su lunghe e velocissime automobili nere, ma piuttosto il signor maresciallo che andava di pattuglia in bicicletta e quando arrestava i ladri non aveva neppure bisogno di tirare fuori le manette.

C’è un ragazzo napoletano, si chiamava Salvo D’Acquisto: di lui conosco solo una fotografia formato cartolina. Forse è stata scattata al paese, una di quelle immagini fissate per attirare i clienti: c’è il soldato col cappello d’alpino in mano, il bambino nudo sulla pelle dell’orso, ci sono i due sposi, lei col velo di tulle bianco, che sorride all’immancabile felicità. Forse, tra quelle facce pulite di tutti i giorni avevano messo anche lui, il brigadiere Salvo D’Acquisto. Ha in testa il berretto con la fiamma d’argento, il volto è serio: quando si è in divisa, gli avevano insegnato, bisogna essere composti.

Di Salvo D’Acquisto sappiamo poco, sappiamo solo come andò a finire. È la breve vicenda di un ragazzo di ventitré anni che muore in un mattino di settembre sotto le raffiche dei mitra tedeschi per salvare gli altri. Non è proprio quello che immaginava, nelle notti di pioggia, quando le strade sono deserte, perché tocca al carabiniere assicurare il sonno e la pace degli altri, e non ci sarà a fermarlo né l’inclemenza delle stagioni, né la fatica, perché deve essere al servizio di tutti.

Ho ripensato a lui, oggi, ai suoi commilitoni in Iraq, in missione: 19 morti, 20 feriti. Alcuni avevano già preparato lo zaino per il rientro.

Ho visto gli italiani in tutti i posti maledetti del dopoguerra, anche mentre dividevano il rancio coi bambini, far la guardia perché fosse rispettato un cimitero, coi medici militari che accorrevano anche per dare aiuto alle partorienti.

Qualche volta mi hanno chiesto se ero orgoglioso di essere italiano per Dante, per Marconi, o per Fermi. Io ho sempre risposto: «Per l’umanità della mia gente».

È guerra. Ma contro chi è venuto qui, non spinto dalla voglia di chi sa quali conquiste, ma per dare un aiuto ai più disgraziati. Vale un motto di John Kennedy, anche per questa storia: «Sono un idealista senza illusioni». Nessuno si disturbi per dire: «Grazie italiani».

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