Da La Stampa del 30/01/2005

Paradosso iracheno

di Barbara Spinelli

DEGLI iracheni che oggi andranno alle urne sappiamo assai poco, non avendoli praticamente mai visti da quando questo popolo, colonizzato dalla potenza britannica subito dopo la caduta dell'impero ottomano, fu costituito in nazione nel 1921. I nostri giornali e televisori possono immaginare di conoscere Saddam, e i suoi scherani più o meno dissimulati. Sanno qualcosa dei terroristi e guerriglieri, che negli ultimi anni sono insorti non solo contro l'occupazione angloamericana ma anche contro la speranza che gli sciiti iracheni - una maggioranza del 60 per cento, tenuta ai margini dalle minoranze sunnite che già ai tempi dei pascià ottomani reggevano il Paese - hanno finito col riporre nel voto: i volti e le azioni dei ribelli armati ci sono familiari, a forza di vederli su schermi e foto. Conosciamo inoltre i curdi, mossi da un desiderio indipendentista che la potenza coloniale inglese prima lusingò poi proditoriamente spense, all'indomani della prima guerra mondiale. Infine conosciamo gli occupanti, e più specialmente il Presidente Usa che ha messo in moto tutto questo tumulto sanguinoso che sfila davanti ai nostri occhi.

Ma l'iracheno che oggi si chiuderà dentro la cabina elettorale e in solitudine riempirà la propria scheda ci è del tutto estraneo, perché è la prima volta nella storia che uno Stato, sia pure illegittimo, inadeguato, corrotto, legato a tutori stranieri, lo chiama a partecipare alla cosa pubblica. La storia futura dell'Iraq dipenderà anche da questo solitario e anonimo elettore, dall'uso che farà di quest'arma che non è un proiettile ma un pezzetto di carta così simile ai biglietti, rischiosissimi, di una lotteria. La democrazia non s'esaurisce né nei pezzetti di carta né nei numeri ma è anche questo pezzetto di carta e quella forza dei numeri, offerti in alternativa alla soluzione violenta dei conflitti. Somiglia sempre un po' a una lotteria, ma alla lunga può divenire qualcosa di più d'un azzardo: on ne badine pas avec la démocratie, non si scherza con la democrazia così come non si scherza con l'amore. Fra dieci o vent'anni si potrà dire se questa domenica è stata l'inizio di un nuovo Iraq nato dal vecchio che Saddam fondava sul sangue, o se l'Iraq sta sprofondando, pronto a infrangersi nelle tre province (sciita, sunnita, curda) che in passato erano incorporate, senza legame fra loro, nell'impero ottomano.

L'amministrazione statunitense ha tentato più volte di rinviare questo voto, fortemente voluto non solo dagli sciiti moderati e dai curdi ma anche da tutti coloro, nella comunità sunnita, che temono l'avvento inedito di una schiacciante maggioranza sciita e che proprio per questo vogliono esser presenti nell'Assemblea costituzionale destinata a scaturire dal voto: un'Assemblea che dovrà redigere la costituzione entro il 15 agosto, sottoporla a referendum il 15 ottobre, e poi sciogliersi per consentire l'elezione, il 15 dicembre, d'un governo davvero legittimo. Ora Bush appoggia il processo elettorale, lo definisce una «tappa nella marcia globale verso la democrazia», e sembra convinto che proprio qui sia la vittoria della propria strategia di scardinamento dello status quo nel mondo musulmano, iniziata tre anni fa con il rovesciamento di Saddam. Ma ancora una volta si sbaglia, e anch'egli sembra non conoscere il solitario elettore che nelle prossime ore andrà a votare sfidando l'intensificarsi di attentati e minacce di Al Zarqawi e dell'estremismo sunnita.

Il solitario elettore va a votare perché in cuor suo lo sa perfettamente: nessuno, nel fronte degli insorti o della guerriglia nazionalista o del terrorismo integralista, ha un autentico interesse al ritiro rapido delle truppe distaccate in Iraq da angloamericani e alleati, italiani compresi. L'obiettivo di tale fronte è una guerra a tu per tu, fra insorti e soldati d'occupazione, e fra questi due poteri il vuoto dell'impotente anarchia irachena. A questo scopo urge che gli occupanti restino, impantanati in Mesopotamia. Non solo: l'estremismo sunnita di Bin Laden e Al Zarqawi annoda strettamente obiettivi locali con obiettivi globali, come sempre, e quel che vuol scongiurare in Iraq è l'avvento vittorioso - in un'area musulmana dominata dai sunniti, sul Golfo Persico - di una sorta di cavallo di Troia sciita. Un cavallo legato per di più all'Iran post-khomeinista, sia dal punto di vista strategico che dottrinario.

Da questo punto di vista la permanenza di truppe d'occupazione è probabilmente giudicata ideale, dall'insurrezione armata, e il loro ripiegamento un'ominosa, temibile prospettiva. Se i soldati americani o inglesi o italiani son costretti a restare, perché il caos in Iraq è inestirpabile, allora fra gli sciiti vinceranno i più estremisti e filo iraniani - non mancano, in quella comunità - e nessun nuovo Iraq vedrà la luce. È la stessa strategia perseguita in Palestina da Hamas, che appartiene alla stessa corrente sunnita di Bin Laden. Il ritiro degli israeliani dai territori, nella misura in cui rafforzava legittimità e moderazione dell'Autorità Palestinese, era in realtà inviso da Hamas e per anni fu da esso frenato.

Per questo tutti mentono, sull'Iraq. Mente Bush, quando dice che l'inizio del processo elettorale sancisce il successo della strategia Usa. Mentono i fautori violenti del sabotaggio elettorale, quando sostengono che prioritaria è la ritirata Usa, e che lo scrutinio è illegittimo dal momento che avviene sotto l'occupazione. In realtà la presenza dei soldati americani è per questi ultimi essenziale, perché le elezioni possano esser screditate in anticipo e denunciate come irrilevanti, in dispregio di quello sconosciuto elettore che s'affaccia alla storia irachena.

L'unico a non mentire è proprio lui, l'anonimo elettore che assediato da bombe o fucili si dirige nonostante tutto verso la cabina. Che vorrebbe farlo, comunque, non solo tra sciiti e curdi ma anche tra sunniti. Non mente perché le elezioni sono veramente un'arma, nelle sue mani: un'arma assai storta e imperfetta, ma un'arma pur sempre alternativa a quella, sterile e comunque ambigua, di guerriglieri e terroristi. Un'arma per fare che? Per dar vita a una costituzione che renda possibile la convivenza tra sunniti moderati, sciiti moderati, e curdi interessati a forme d'autonomia non necessariamente radicali.

La sola arma forse - efficace ma anche veritiera - per ottenere quello di cui il Paese ha più che mai bisogno, se vuol divenire una nazione capace di dare a se stessa una legge e un ordinamento non fondati sulla prevaricazione dispotica di clan minoritari. Quello di cui il Paese ha bisogno, e che quasi tutti anelano in Iraq, è il ritorno a casa di un'America che ha creato più mali di quanti ne abbia sradicati: un'America che pretendeva di trovare armi di distruzione di massa e non le trovò, e che poi pretese di debellare il terrorismo globale sostituendo Saddam con la democrazia, e invece spodestò Saddam trasformando l'Iraq in una vasta base (questo il significato di al Qaeda) del terrorismo.

Qui è il paradosso della presente storia irachena, il suo significato imprevisto: il modo migliore per dare una lezione alle amministrazioni Usa è di profittare della loro retorica democratica come si profitta dell'ironia della sorte; di credere nel solitario elettore iracheno; e di cercare di capire le sue paure, le sue tentazioni di farsi intimidire, ma anche le sue speranze così tenaci, così impavide, in un futuro meno dolente.

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