Da La Stampa del 17/11/2004

Una questione che va oltre la politica e mette in gioco l’identità del centrodestra

Il Polo e le tasse, sull’orlo di una crisi di nervi

Il tramonto della rivoluzione fiscale per il berlusconismo equivale alla bandiera rossa ammainata al Cremlino per i comunisti

di Pierluigi Battista

ROMA - IL tramonto della rivoluzione fiscale è per il popolo del centro-destra l’equivalente emotivo della bandiera rossa ammainata sul Cremlino per chi ha creduto nel comunismo. La maggioranza sbanda, vittima di un’ebbrezza autodistruttiva. La base di Forza Italia piange tutte le sue lacrime sul sito Internet del partito. Il governo è sull’orlo del tracollo psicologico che alimenta sospetti, acutizza la sindrome del complotto, semina zizzania su un terreno già smosso da polemiche e dissidi. L’abbattimento delle tasse sta al berlusconismo come la difesa del Welfare State alla socialdemocrazia. Rinunciare alla riduzione delle tasse colpisce un principio di identità, attiene alla sfera primaria di un’appartenenza. E perdere la sintonia con la rivoluzione del fisco getta chi si tira indietro nel marasma esistenziale, nello smarrimento di ogni ragione di sé.

La questione non è privilegiare l’Irap al posto dell’Irpef, una scelta di politica economica come le altre che prelude a decisioni dolorose ma che non mette in discussione la radice del proprio essere. E la riduzione delle tasse può essere modulata o calibrata a seconda delle circostanze e dei conti. Ma la polemica contro le tasse, l’avversione al fisco rapace è il linguaggio fondamentale che ha creato la sintonia tra il centro-destra guidato da Berlusconi e il suo elettorato vasto e variegato. La sinistra non capirà mai il Berlusconi che predica la liceità morale dell’evasione su un prelievo superiore a un terzo del reddito e lo considera, comprensibilmente dal suo punto di vista, un apologeta dell’illegalità, un fomentatore del fa-da-te fiscale. Ma se la sinistra parla un linguaggio secondo il quale il dovere fiscale è la precondizione della redistribuzione sociale della ricchezza, per il popolo berlusconiano dei commercianti e della partite Iva, dei professionisti e dei piccoli imprenditori le tasse sono una maledizione, un’amara medicina, un potenziale attentato alla libertà individuale e, se esageratamente afflittive, addirittura un attacco al sacro diritto di proprietà. La sinistra accusa la destra di non avare una cultura. Ma il ribellismo antifiscale è il frutto di una cultura: è la cultura che diffida dello Stato e della degenerazione statalista, che oscuramente avverte quanto almeno due rivoluzioni siano legate alla protesta contro lo Stato esattore e invadente. Contro l’esosità delle tasse del Re partì la rivoluzione inglese del Seicento. Tasse e balzelli da abbattere furono la miccia della guerra d’indipendenza americana dalla madrepatria britannica. L’amore per Reagan nasce dalla rivoluzione antifiscale che quella presidenza innescò e così la venerazione per la Thatcher. L’Uomo Qualunque di Giannini aveva come emblema il povero cittadino stritolato dal torchio delle tasse. Sparito il qualunquismo politico, resta l’uomo qualunque che considera il modulo fiscale una penitenza, un’usurpazione. Persino una sottrazione di libertà e di ricchezza meritoriamente acquisita ma intascata da uno Stato vorace e aguzzino.

Silvio Berlusconi ha dato voce ed espressione alla speranza che le tasse potessero finalmente essere tagliate. Ha vinto le elezioni su questa promessa semplice e di immediata e universale comprensione. Ha rimandato l’agognato taglio di uno, due, tre anni. Al quarto anno, in extremis, annuncia che bisognerà aspettare un anno ancora. Ma in questa spettacolare rinuncia l’anima profonda del suo movimento si sente umiliata e violentata. Si capisce che uno degli economisti più apprezzati da Berlusconi, Renato Brunetta, decida di non stemperare più l’asprezza della protesta e dello sgomento. Un ministro liberista come Antonio Marzano entra in polemica diretta con il ministro Siniscalco, che della religione antifiscale non è proprio un sacerdote. E Giulio Tremonti, la cui defenestrazione è stato il simbolo più eloquente della fine di una stagione, torna sul proscenio ad agitare il vessillo delle tasse da tagliare come la reliquia del patto originario, l’atto fondativo di una fede condivisa e oramai appannata. Del resto, la firma del contratto con gli italiani attraverso il quale Berlusconi prometteva prima delle elezioni il taglio delle tasse rappresentava esso stesso un atto sacrale. Di una sacralità secolarizzata e mediatizzata, certamente. Ma pur sempre impegnativa, veicolo simbolico di una sintonia profonda tra il leader e i suoi seguaci che nella promessa della rivoluzione antifiscale trova il suo principale, archetipico motivo di identificazione.

L’impressione del caos e del disorientamento che sembra aver contagiato un centro-destra perso nei numeri e nelle trattative estenuanti non è che la manifestazione più macrospica di una bandiera che appare irrimediabilmente sbiadita. Gli alleati riottosi di Berlusconi, che infatti sulle tasse nicchiano, puntualizzano, frenano, ridimensionano, non hanno inscritto nel loro Dna la passione contro il Moloch delle tasse. Nelle loro bandiere è scritta la parola «sociale», oppure il solidarismo, o ancora la difesa del Mezzogiorno d’Italia. L’idea che le tasse vadano abbattute, non solo come stimolo per la crescita economica e come spinta ai consumi che languono, ma per un atto di «giustizia» e di riequilibrio nei rapporti tra l’individuo e lo Stato, questa idea è culturalmente estranea sia alla destra statalista che al centro democristiano ispirato piuttosto a un modello di moderazione sociale e di armonia concertativa. Ma è in questa idea, che è anche un miraggio, che si trova la fonte battesimale del berlusconismo. Perciò la marcia indietro sulla rivoluzione fiscale rappresenta la perdita di un pezzo d’anima. Perciò gli elettori più fedeli a Berlusconi appaiono afasici o in rivolta, addolorati dalla perdita del cuore della loro identità pubblica. Sui numeri, forse, l’accordo potrà essere recuperato. Ma il vulnus inferto alla granitica certezza che la riduzione delle tasse sia la priorità assoluta di qualunque politica è destinato a esacerbare una ferita difficilmente rimarginabile. Si è strappata una bandiera, colpita sul fronte più carico di significati nel popolo berlusconiano: quello delle aliquote.

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