Da La Repubblica del 07/11/2004

Il presidente si gioca la credibilità internazionale. Si dimette Blackwill, vice della Rice per l´Iraq

Bush ricomincia da Falluja "Terminerò il lavoro iniziato"

Il Pentagono prepara l´attacco alla città ribelle

di Alberto Flores D'Arcais

NEW YORK - Finite le celebrazioni e i discorsi di rito, incassato dagli elettori un mandato pieno, George W. Bush e i suoi uomini si sono rimboccati le maniche per dare seguito alla promessa ripetuta in centinaia di comizi in tutti gli States (blu o rossi che siano): «Portare a termine il lavoro iniziato».

Se l´agenda (2005-2008) del presidente è ricca di politica interna e sociale - tagli alle tasse, sanità, "riconciliazione" con i democratici - il primo e principale focus della Casa Bianca, almeno nella fase iniziale del secondo mandato resta quello internazionale; e all´interno della politica estera l´appuntamento decisivo riguarda la questione Iraq. Sulla guerra e i motivi che l´hanno provocata Bush non intende fare passi indietro.

Abbattere il regime di Saddam Hussein (presunti legami con Al Qaeda e contestata storia delle armi di distruzione di massa a parte) era solo il primo gradino di un progetto molto più vasto e ambizioso che si pone come obiettivo finale l´esportazione della democrazia nell´intero Medio Oriente. Se la democratizzazione dell´antica Mesopotamia è un passo assolutamente necessario nella visione globale della Casa Bianca, sulla tenuta o meno di elezioni in Iraq il prossimo gennaio George W. Bush si gioca una buona parte della sua credibilità internazionale e delle linee direttrici della politica estera americana.

Se entro tre mesi il popolo iracheno non potrà recarsi alle urne a Bagdad, a Bassora e nelle altre di province - siano esse a maggioranza sciita, sunnita o curda - per scegliersi liberamente il proprio futuro fallisce la missione Iraq; e se fallisce l´Iraq falliscono di conseguenza i piani di democratizzazione del Medio Oriente. Dai generali e dall´ambasciatore John Negroponte la Casa Bianca vuole oggi la certezza che gli iracheni vadano alle urne a gennaio, costi quel che costi.

Al Pentagono non si sottovalutano i rischi dell´attuale situazione, si rendono conto che oggi come oggi il voto sarebbe impossibile in diverse regioni del paese e con la massiccia offensiva in atto a Falluja vogliono ottenere due risultati: eliminare la principale roccaforte degli insurgents e arrivare a un accordo elettorale con la dirigenza sunnita. L´offensiva di Falluja era prevista da tempo, non era un mistero per nessuno e neanche con una vittoria di John Kerry sarebbe stata rimandata o cancellata; e da come andrà a finire laggiù si capirà se la questione irachena resterà solo per pochi mesi al numero uno dell´agenda o se il pantano iracheno diventerà realmente un incubo alla Vietnam, tale da incidere sul secondo mandato di Bush.

Nel suo abituale discorso del sabato mattina alla radio Bush ha ripetuto i concetti già espressi nella conferenza stampa tenuta all´indomani della vittoria, nessun passo indietro sull´Iraq: «Stiamo combattendo una guerra al terrorismo e la continueremo fino a quando il nemico sarà sconfitto». Parlando del «nemico che abbiamo in comune» ha teso la mano anche a chi si è opposto alla guerra (leggi Francia e Germania), «dobbiamo lavorare con i nostri amici e alleati in Europa e nella Nato, per promuovere sviluppo e progresso, per sconfiggere i terroristi e incoraggiare la libertà e la democrazia».

Non si tratta di un cambio di linea. Dalle elezioni del 2 novembre il presidente americano è uscito rafforzato e non intende certo abdicare alle proprie posizioni e ai propri convincimenti. Dall´interno della Casa Bianca fanno sapere che l´apertura alla Old Europe è la naturale conseguenza della vittoria («se è vero che l´America ha bisogno dell´Europa è ancora più vero che l´Europa ha bisogno dell´America») e che i messaggi che arrivano dalle Cancellerie di Berlino e Parigi sono altrettanto distensivi «perché hanno capito che per altri quattro anni dovranno discutere e dialogare con noi e noi oggi siamo più forti di una settimana fa». E rimandano alla frase pronunciata da Bush dopo le elezioni: «Sono fortemente in disaccordo con chi non capisce la saggezza nel promuovere società libere in giro per il mondo o con chi crede che certe società non possano essere libere».

Al Dipartimento di Stato e al Pentagono - dove sono tutti in posizione di attesa per vedere quale sarà (se ci sarà) il valzer delle poltrone che riguarda Powell, Condoleezza Rice, Rumsfeld e Wolfowitz - l´impatto del voto "evangelico" sulla politica estera è considerato quasi nullo. Un sondaggio del mese scorso ha mostrato che il 75 per cento dei sostenitori di Bush è ancora convinto che Saddam Hussein abbia dato un sostanziale aiuto ad Al Qaeda negli attentati del 11 settembre e il 72 per cento è certo che in Iraq ci fossero armi di sterminio di massa. E i "fondamentalisti" cristiani chiederanno il conto alla Casa Bianca sulle cose che stanno loro più a cuore (aborto ed emendamento costituzionale sui matrimoni gay) tanto più che appoggiano appieno la linea adottata dall´amministrazione nel conflitto tra Israele e palestinesi, oppure nel caso degli estremisti che vagheggiano la "seconda venuta di Cristo" hanno posizioni che non piacciono neanche al Likud.

Robert Blackwill, uno dei consiglieri del presidente Bush per l´Iraq, ha annunciato le sue dimissioni. Blackwill, 64 anni, considerato esperto di questioni legate al Medio Oriente e in generale all´Asia, ha lavorato per il Consiglio di sicurezza nazionale sotto la direzione di Condoleeza Rice dall´estate dello scorso anno. Era stato indicato come possibile successore di Condoleezza Rice.

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