Da La Repubblica del 02/10/2004

Diario da Manhattan

Il riscatto dello sfidante

Nella campagna per la prima volta è entrata la sostanza

di Alexander Stille

Il dibattito di giovedì notte tra Bush e Kerry ci ha offerto qualcosa di inusitato in questa campagna elettorale altrimenti uggiosa: un confronto serio su temi seri e la sensazione di assistere a un fatto reale tra migliaia di pseudo-eventi. Fin qui era sembrata la peggior campagna elettorale che si ricordi: un deprimente, vuoto bombardamento di brevi dichiarazioni a effetto della durata di 20 secondi, seguite da 30 secondi di pubblicità, un susseguirsi di ipocrisie, vuota retorica, stupide divergenze su questioni inconsistenti, Convention orchestrate da una artificiosa regia che hanno falsato le immagini di entrambi i partiti, e pressoché nessun tentativo di presentare una scelta tra due candidati e due impostazioni politiche.

Bush era riuscito ad isolarsi non concedendo conferenze stampa, limitandosi ad apparire in pubblico esclusivamente di fronte a folle adoranti di sostenitori accuratamente selezionati e ripetendo le stesse tre quattro battute senza contraddirsi. Sembrava possibile che Bush riuscisse ad essere rieletto senza trovarsi a dover rispondere del suo operato durante i quattro anni in cui ha radicalmente mutato il corso della nazione più potente del mondo pur se la maggioranza degli americani è del parere che ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata. Come mai? Perché i suoi consiglieri erano riusciti a vincere la guerra simbolica combattuta a colpi di immagine: Bush è più energico, più deciso, più virile, vi garantirà maggiore sicurezza.

Kerry, lento a reagire agli attacchi, aveva finito per apparire - persino agli occhi di molti dei suoi sostenitori - debole, titubante e inetto, fedele al ritratto dipintone dai repubblicani in campagna elettorale. Ma l´altra sera abbiamo visto i due candidati soli sul palco, costretti a guardarsi in faccia e a rispondere a delle domande. Kerry è apparso un candidato estremamente intelligente e ben preparato, ha mostrato una solida padronanza di temi complessi riuscendo nel contempo a vincere dove tutti si aspettavano che perdesse: nella battaglia simbolica del linguaggio del corpo. Kerry - anziché apparire distaccato, freddo e professorale come dava l´idea di essere o veniva dipinto, è risultato lucido, rilassato e padrone di se stesso e dei temi in discussione. Andrew Sullivan, commentatore conservatore ha scritto: «Nel tono e nel contegno Kerry è apparso energico, autoritario, dotato di statura presidenziale? Agli occhi di milioni di americani che lo conoscevano solo per come lo dipingevano gli spot a favore di Bush o monotoni comizi elettorali, lo sfidante per la prima volta è apparso forte. Nel confronto diretto di immagine, Kerry letteralmente giganteggiava».

Bush, al contrario, è apparso spesso confuso e a disagio, ha continuato a ripetere le stesse tre o quattro battute quasi non fosse in grado di sostenere una discussione di novanta minuti sul suo mandato presidenziale. Spiegando le difficoltà dell´invasione dell´Iraq ha ripetuto per undici volte queste parole esatte: «È un lavoro duro». La pochezza intellettuale sembrava eguagliare quella politica e portava a comprendere come mai ci troviamo oggi in questo pasticcio. Non è stata solo un´impressione mia personale: anche elettori indipendenti assistendo al faccia a faccia in Tv hanno avuto la netta sensazione che Kerry avesse avuto la meglio nel dibattito.

Questo faccia a faccia non influirà forse sull´esito delle presidenziali, ma almeno si è colto un barlume di luce filtrare nella caverna di Platone popolata da ombre mediatiche.
Annotazioni − Traduzione di Emilia Benghi.

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