Da Corriere della Sera del 18/10/2004

Gli Eserciti Privati un’Ombra su Bagdad

Con forze locali valide i contractors perderebbero gli appalti

di Fabio Mini

La stabilizzazione e la ricostruzione dell'Iraq dipendono da molti fattori, ma certamente dipendono dalla costituzione o ricostituzione delle forze di sicurezza e dell'esercito. «La dissoluzione dell'esercito iracheno, stabilita con uno dei primissimi decreti dell'amministrazione civile di Paul Bremer III il 23 maggio 2003, è stata uno dei più madornali errori. Ha messo fine ad una istituzione che era precedente al regime di Hussein, che aveva un'identità ben distinta dal governo baathista e che era legata intimamente alla storia dello stato-nazione iracheno fin dagli anni Venti». Così il think tank strategico Icg (International Crisis Group) ha bollato uno dei provvedimenti di cui l’amministrazione provvisoria era andata particolarmente fiera. Walter Slocombe, che aveva presieduto alla dissoluzione dell'esercito iracheno, si era poi incaricato di ricostituire il nuovo, ma con criteri talmente restrittivi da provocare ulteriori problemi. La nuova forza irachena avrebbe dovuto comprendere non più di 40 mila uomini. Circa tre divisioni di fanteria leggera sarebbero state sufficienti a garantire la difesa dell'Iraq: un compito che Saddam aveva cercato di assolvere con un esercito di 20 divisioni, 400 mila soldati e 2600 carri armati. Era evidente che la logica di ricostituzione della nuova armata poggiava sulla dipendenza dalle forze americane. I risultati del provvedimento sono stati catastrofici soprattutto dal punto di vista morale. Ufficiali e sottufficiali si sono sentiti umiliati e offesi. Molti si sono dati alla lotta contro la coalizione. La loro rabbia è stata ulteriormente alimentata dal fatto che allo stesso tempo nei servizi di sicurezza venivano reclutati i quadri dei precedenti apparati di intelligence molto più politicizzati e collusi.


I CONTRACTORS - La ricostituzione delle forze armate è stata perciò una priorità malamente percepita dall'amministrazione d'occupazione e praticamente capita soltanto quando la resistenza e il terrorismo hanno creato seri problemi di sicurezza. A quel punto il danno maggiore era già fatto. Oggi, la ricostituzione delle forze irachene è affidata agli investimenti, enormi, americani; ai consigli inglesi e all'opera di compagnie private militari che vantano successi nell'organizzazione di milizie, di operazioni di guerriglia e controguerriglia, di partecipazione a insurrezioni e di protezione di Vip di qualsiasi natura: dai dittatori ai funzionari delle Nazioni Unite.

Oltre ai soldi, dagli americani viene il modello organizzativo della guardia nazionale. Dagli inglesi viene l'esperienza maturata dai tempi dell'impero coloniale. Ciò che essi hanno sperimentato in secoli è stato ripetuto passo passo nel giro di pochi mesi. Gli inglesi si assicuravano l'aiuto dei nativi amici per soggiogare quelli ostili. Ma gli «amici» erano anche quelli più disposti alla sottomissione, al compromesso e quindi meno determinati e autorevoli. E così inizialmente furono reclutate le unità irachene, che si dissolsero alla prima prova. Poi, in India, gli inglesi rivoluzionarono il sistema utilizzando gli ex nemici, come i Sikhs, che diventarono i capisaldi dell'impero. E fu una guerra vittoriosa contro il Nepal a produrre una delle più affidabili forze militari straniere al servizio inglese: i gurka. Anche questo è stato fatto in Iraq reintegrando i baathisti e i «professionisti» delle unità di élite di Saddam. Le forze coloniali erano comandate da inglesi e soltanto verso la fine dell'epoca coloniale essi concessero ai nativi di accedere alla categoria degli ufficiali. In Iraq si è passati dalla completa dipendenza dagli americani alla costituzione di alti comandi iracheni nel giro di giorni.

Ma l'analogia più inquietante viene dall'esperienza post-coloniale: gli eserciti dei Paesi che via via conquistavano l'indipendenza attingevano all'esperienza degli ex padroni e si avvalevano dei loro consiglieri, ma i risultati non sono stati omogenei. Accanto a nazioni che hanno mantenuto principi e organizzazioni ispirate ai valori «reggimentali», alla democrazia, al rispetto della legge, alla devozione per la tradizione e per l'autorità costituita, si sono formati eserciti dinastici, milizie private, eserciti rivoluzionari ed eserciti a loro volta neo-coloniali. In Iraq siamo di fronte al rischio che tutte queste forme si sviluppino contemporaneamente.


CONTRO I TERRORISTI - Oggi il nuovo esercito iracheno viene impiegato assieme alle forze della coalizione in compiti di repressione interna. E' un compito fondamentale perché lo coinvolge nel cuore del problema della sicurezza. Un compito che può rafforzarlo se la repressione riguarda i terroristi, ma che può indebolirlo se i danni collaterali della caccia ai ribelli colpiscono la popolazione civile. In questa fase l'esercito iracheno non ha proprio bisogno di ulteriori connotazioni negative. Ha già enormi difficoltà e appare agli iracheni stessi come una emanazione e un prolungamento della forza d'occupazione. Anche i moderati non si fidano dei propri soldati e ora che molti quadri direttivi sono formati da sunniti e baathisti reintegrati, si fidano anche meno. Come del resto fanno gli stessi americani che ogni tanto si vedono costretti ad arrestare i comandanti appena nominati.

I candidati per l'arruolamento sono proposti da intermediari come partiti politici, capi tribali, governatori provinciali e notabili attenti soltanto alla propria clientela. Gli iracheni temono la privatizzazione almeno quanto l'atomizzazione e la politicizzazione delle forze di sicurezza. Una struttura militare poco addestrata, male equipaggiata, non nazionale, divisa secondo linee etniche o di affiliazione politica piuttosto che un segnale di unità e fiducia sembra dar vita a strumenti di faida politica. Come se non bastasse, ogni contingente della coalizione, vincolato in aree di responsabilità esclusive e scarsamente coordinate con quelle limitrofe, ha avviato programmi di addestramento separati, diversi uno dall'altro.

Le compagnie militari private che in Iraq hanno ottenuto contratti per l'addestramento delle forze di sicurezza sono finanziate direttamente o indirettamente dai governi della coalizione, dalle organizzazioni internazionali, dalle organizzazioni non governative e dalle corporazioni private. Sono da tempo diventate un problema nel problema. Lo stesso Rumsfeld, con una lettera alla Commissione Forze Armate del Congresso, ha denunciato la presenza in Iraq di oltre 20.000 contractors militari privati e la prospettiva che dopo il passaggio dei poteri al governo provvisorio sarebbero aumentati.


IL BUSINESS DEL CAOS - Il settore militare privato, e non la Gran Bretagna, è stato il secondo maggior contributore alla guerra. La coalizione non ha il monopolio della sicurezza e neppure le forze irachene che nasceranno potranno mai esercitare tale controllo. Le compagnie private e chi le assume hanno enormi interessi e non si lasceranno mettere fuori causa da un apparato ufficiale efficiente: lo stesso che dovrebbero addestrare e formare. Tutte queste compagnie sono costituite da ex militari, sono perfettamente legali e possono annoverare tra i propri dirigenti, amministratori e lobbisti passati e presenti il top delle forze armate americane e inglesi e i più noti leader dei rispettivi governi. In Iraq e Afghanistan hanno dato vita ad eserciti ombra reticolari, con gerarchie indipendenti, fuori di ogni controllo e asserviti a logiche in parte d'affari, ma unificati dallo sfruttamento dell'instabilità. Mobilità, aggressività, mancanza di regole e di referenti istituzionali a cui rispondere, li rendono efficienti e paradossalmente meno esposti a rischi. A meno che non se li vadano a cercare.

La Nato è stata di recente chiamata a sviluppare un progetto di addestramento delle forze di sicurezza irachene nel tentativo di unificare, istituzionalizzare e multinazionalizzare un impegno che si percepisce più arduo del previsto. E' senz'altro un approccio corretto, ma non ci si possono aspettare miracoli. La Nato non ha molta esperienza pratica in questo tipo di cooperazione. Ondeggia tra modelli franco-britannici di stampo coloniale e modelli statunitensi di guardie nazionali. Ogni nazione ritiene che il proprio esercito sia quello giusto e ci tiene a clonarlo. Il pasticcio del Kosovo Protection Corps è un parto della Nato mediando pulsioni inglesi, concezioni sociali nordiche, timori tedeschi e interessi statunitensi. La stessa Nato è poi tendenzialmente orientata verso l' outsourcing che è la ragione fondamentale di legittimazione del ricorso alle compagnie private militari. Ma non è orientata verso la delega ai privati del controllo politico e militare. Ed è tanto. L'intervento della Nato è perciò un segnale positivo per il futuro, almeno dal punto di vista concettuale, perché proprio grazie alla dialettica interna non è organizzazione da operazioni «mordi e fuggi». Finora la caotica miriade di iniziative indipendenti è stata giustificata dall'esigenza di fronteggiare l'emergenza, ma la costruzione delle istituzioni militari e di sicurezza deve seguire una logica di stabilità a medio e lungo termine e non servire soltanto a scopi immediati e transitori. Ciò che viene costruito oggi sarà destinato a permanere per lungo tempo, lo si voglia o no.

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