Da Corriere della Sera del 30/09/2004
Il medico della trattativa: 4 telefonate dai rapitori
di Giovanni Bianconi, Fiorenza Sarzanini
ROMA - Nel primo interrogatorio, il giovane medico iracheno aveva dato una versione dei fatti «minimale», che non poteva accontentare il pubblico ministero Erminio Amelio. S’era limitato a riferire di una telefonata ricevuta la sera prima del rilascio, seguita dalla decisione di partire con Maurizio Scelli per prendere in consegna le due ragazze italiane. Troppo poco, anche perché i magistrati romani già sapevano che c’era dell’altro nelle tre settimane vissute in gran segreto dall’anestesista trentunenne Navar Ismar. Navar, figlio di un professore universitario ben visto dal Consiglio degli Ulema, in servizio all’ex Saddam Hospital (oggi Medical City) di Bagdad fino al giugno scorso, vive da tre mesi a Roma, dove frequenta uno stage di specializzazione al Policlinico Gemelli. È uno strettissimo collaboratore della Croce Rossa e di Scelli, e alle 4 del mattino di mercoledì il pm Amelio ha chiamato nel suo ufficio il commissario straordinario per illustrargli le reticenze del medico che stava interrogando. La tensione è salita, poi è tornata la calma e un’ora dopo un nuovo verbale del dottor Navar spiegava con molti più dettagli il suo ruolo nella trattativa per la liberazione di Simona Pari e Simona Torretta. Un ruolo centrale, importantissimo. Perché è sul suo telefono cellulare italiano che sono arrivate le chiamate dall’Iraq per conto dei sequestratori, e da quell’apparecchio sono giunte le voci delle due volontarie prese in ostaggio. Non solo il 25 settembre per dire che stavano bene, ma anche in due precedenti occasioni, quando Simona Pari e Simona Torretta, parlando in inglese, scandivano altri messaggi.
Già in occasione della riconsegna del corpo di Fabrizio Quattrocchi, la guardia del corpo sequestrata il 12 aprile e uccisa due giorni dopo, Navar aveva fatto da mediatore. All’epoca lavorava ancora a Bagdad, e a lui si presentò - secondo la versione ufficiale - uno sconosciuto vestito da beduino per comunicargli dove avrebbe trovato i resti della vittima italiana. Tre mesi dopo, con Navar in Italia e mentre erano in corso alcuni tentativi per riavere la salma del giornalista Enzo Baldoni, assassinato il 26 agosto, quel canale è tornato in funzione.
Simona Pari e Simona Torretta sono state rapite il 7 settembre, e la prima telefonata ha raggiunto il medico tre giorni dopo, venerdì 10 settembre. «C’è la possibilità di stabilire un contatto con i sequestratori, e la contropartita sarà economica», ha detto una voce che il mediatore definisce anonima. Navar ha informato Scelli, che a sua volta ha avvertito sia il governo italiano che i responsabili di «Un ponte per...», l’organizzazione delle due ragazze rapite. Visto il brevissimo e tragico volgersi del sequestro Baldoni, nel quale pure la Croce Rossa s’era attivata, «Un ponte per...» ha rifiutato l’offerta di aiuto, e il 12 settembre Scelli disse pubblicamente che stavolta «restiamo in panchina, se ci arrivano informazioni trasferiamo tutto alle istituzioni».
Una frase vera soltanto nell’ultima parte, perché già il 15 settembre sul cellulare di Navar è arrivato un nuovo contatto. Per la prima volta l’interlocutore ha fatto ascoltare al medico la voce registrata delle due donne che illustravano le richieste per il rilascio: un carico di medicinali da inviare in Iraq, dal valore complessivo di 15.000 dollari. Il giorno dopo le agenzie di stampa hanno riferito di un incontro a Palazzo Chigi tra il sottosegretario Gianni Letta, il pubblico ministero romano Franco Ionta (titolare dell’indagine sul sequestro delle due italiane) e il direttore del Sismi Nicolò Pollari. Spiegazione ufficiale della riunione dispensata ai giornalisti, «un contributo di idee in merito alla possibile istituzione di una Procura nazionale antiterrorismo». L’evidente bugia serviva a coprire il fatto che i tre parlarono proprio del contatto aperto dal collaboratore di Scelli, e la decisione di coltivarlo. Anche perché, a parte la straordinaria novità della voce delle due ragazze, a confermarne la bontà c’erano le informazioni raccolte dal Sismi tramite altre fonti, attraverso il Kuwait.
In pochi giorni, nel più stretto riserbo, è stato organizzato l’invio di medicinali in Iraq e lunedì 20 settembre il telefonino di Navar ha squillato di nuovo. Ancora una volta un nastro ha trasmesso le voci delle due donne: «Le medicine hanno raggiunto l’ospedale. Noi stiamo bene, ma per favore non fate tardi». Tardi per che cosa? Forse l’adesione alle altre richieste umanitarie (le cure in Italia per un gruppo di iracheni), ma forse anche di quelle economiche di cui la Croce Rossa non poteva occuparsi; il riscatto, insomma, concordato per altre vie. Una parte della somma patteggiata con i sequestratori - probabilmente il mezzo milione di dollari di cui ha parlato il giornale kuwaitiano Al Rai Al Aam - sarebbe già arrivata a destinazione; il resto dovrebbe essere consegnato nei prossimi giorni, con un’operazione garantita da un intermediario.
Dopo il messaggio del 20 settembre, però, la situazione è sembrata precipitare con i comunicati via Internet sull’avvenuta esecuzione delle volontarie italiane. Notizia falsa, alla quale il Sismi ha negato credito quando attraverso il proprio canale Simona e Simona hanno fatto arrivare le risposte esatte a due domande sulla loro vita privata, formulate dalle famiglie. In quella fase l’ intelligence aveva raccolto anche indicazioni sul luogo della prigione: una villetta a circa sessanta chilometri da Bagdad, sulla strada verso Falluja. Alcuni particolari lo fanno assomigliare al covo in cui, secondo i Servizi segreti britannici, potrebbe essere rinchiuso l’ostaggio inglese Kenneth Bigley.
Al telefono di Navar Ismar la «prova in vita» delle due ragazze è arrivata con la terza registrazione delle loro voci: «Oggi è sabato 25 settembre, le notizie diffuse in questi giorni sono false, noi stiamo bene». Quel giorno s’è riaccesa la speranza, e quarantotto ore più tardi è giunta la telefonata che consigliava a Navar di partire con Scelli: la riconsegna sarebbe avvenuta attraverso la Croce Rossa. Come fu per i resti di Quattrocchi, come doveva avvenire (nelle intenzioni di Scelli) per Baldoni vivo e poi per la sua salma. Stavolta è andato tutto per il verso giusto, e i magistrati hanno di che indagare sul racconto di Navar, protagonista principale della trattativa. A cominciare dalle tracce lasciate dalle chiamate sul suo telefono. Ora è un po’ più chiaro come sono state rilasciate Simona Pari e Simona Torretta, ma resta il mistero sul quesito principale: chi e perché le ha rapite e, ventuno giorni dopo, rimandate a casa sane e salve.
Già in occasione della riconsegna del corpo di Fabrizio Quattrocchi, la guardia del corpo sequestrata il 12 aprile e uccisa due giorni dopo, Navar aveva fatto da mediatore. All’epoca lavorava ancora a Bagdad, e a lui si presentò - secondo la versione ufficiale - uno sconosciuto vestito da beduino per comunicargli dove avrebbe trovato i resti della vittima italiana. Tre mesi dopo, con Navar in Italia e mentre erano in corso alcuni tentativi per riavere la salma del giornalista Enzo Baldoni, assassinato il 26 agosto, quel canale è tornato in funzione.
Simona Pari e Simona Torretta sono state rapite il 7 settembre, e la prima telefonata ha raggiunto il medico tre giorni dopo, venerdì 10 settembre. «C’è la possibilità di stabilire un contatto con i sequestratori, e la contropartita sarà economica», ha detto una voce che il mediatore definisce anonima. Navar ha informato Scelli, che a sua volta ha avvertito sia il governo italiano che i responsabili di «Un ponte per...», l’organizzazione delle due ragazze rapite. Visto il brevissimo e tragico volgersi del sequestro Baldoni, nel quale pure la Croce Rossa s’era attivata, «Un ponte per...» ha rifiutato l’offerta di aiuto, e il 12 settembre Scelli disse pubblicamente che stavolta «restiamo in panchina, se ci arrivano informazioni trasferiamo tutto alle istituzioni».
Una frase vera soltanto nell’ultima parte, perché già il 15 settembre sul cellulare di Navar è arrivato un nuovo contatto. Per la prima volta l’interlocutore ha fatto ascoltare al medico la voce registrata delle due donne che illustravano le richieste per il rilascio: un carico di medicinali da inviare in Iraq, dal valore complessivo di 15.000 dollari. Il giorno dopo le agenzie di stampa hanno riferito di un incontro a Palazzo Chigi tra il sottosegretario Gianni Letta, il pubblico ministero romano Franco Ionta (titolare dell’indagine sul sequestro delle due italiane) e il direttore del Sismi Nicolò Pollari. Spiegazione ufficiale della riunione dispensata ai giornalisti, «un contributo di idee in merito alla possibile istituzione di una Procura nazionale antiterrorismo». L’evidente bugia serviva a coprire il fatto che i tre parlarono proprio del contatto aperto dal collaboratore di Scelli, e la decisione di coltivarlo. Anche perché, a parte la straordinaria novità della voce delle due ragazze, a confermarne la bontà c’erano le informazioni raccolte dal Sismi tramite altre fonti, attraverso il Kuwait.
In pochi giorni, nel più stretto riserbo, è stato organizzato l’invio di medicinali in Iraq e lunedì 20 settembre il telefonino di Navar ha squillato di nuovo. Ancora una volta un nastro ha trasmesso le voci delle due donne: «Le medicine hanno raggiunto l’ospedale. Noi stiamo bene, ma per favore non fate tardi». Tardi per che cosa? Forse l’adesione alle altre richieste umanitarie (le cure in Italia per un gruppo di iracheni), ma forse anche di quelle economiche di cui la Croce Rossa non poteva occuparsi; il riscatto, insomma, concordato per altre vie. Una parte della somma patteggiata con i sequestratori - probabilmente il mezzo milione di dollari di cui ha parlato il giornale kuwaitiano Al Rai Al Aam - sarebbe già arrivata a destinazione; il resto dovrebbe essere consegnato nei prossimi giorni, con un’operazione garantita da un intermediario.
Dopo il messaggio del 20 settembre, però, la situazione è sembrata precipitare con i comunicati via Internet sull’avvenuta esecuzione delle volontarie italiane. Notizia falsa, alla quale il Sismi ha negato credito quando attraverso il proprio canale Simona e Simona hanno fatto arrivare le risposte esatte a due domande sulla loro vita privata, formulate dalle famiglie. In quella fase l’ intelligence aveva raccolto anche indicazioni sul luogo della prigione: una villetta a circa sessanta chilometri da Bagdad, sulla strada verso Falluja. Alcuni particolari lo fanno assomigliare al covo in cui, secondo i Servizi segreti britannici, potrebbe essere rinchiuso l’ostaggio inglese Kenneth Bigley.
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