Da Corriere della Sera del 30/08/2004

Presidente di guerra

di Gianni Riotta

NEW YORK - Il presidente George W. Bush non avrebbe mai immaginato, né desiderato, che un mondo in guerra decidesse della sua rielezione. Eppure i delegati del Grand Old Party repubblicano, raccolti da oggi a New York per la loro Convenzione, hanno davanti una scelta nitida: per la prima volta, dal 1972 che vide la Realpolitik di Nixon battere il pacifismo di McGovern, la politica internazionale è banco di prova per la Casa Bianca. Bush aveva altro in mente, quattro anni fa. In un saggio sulla rivista Foreign Affairs , già remoto come una statua di cera al Museo di Madame Tussaud, la sua consigliera Condoleezza Rice deprecava lo slancio di Bill Clinton nell'esportare la democrazia e proponeva piuttosto di coltivare relazioni con i paciosi vicini di casa, Canada e Messico.

La guerra dichiarata all'Occidente dai fondamentalisti islamici l'11 settembre 2001 ha mutato la condotta di Bush e cambiato la strategia del Paese per molti anni a venire. Il presidente che diffidava del multilateralismo del padre, George H. W. Bush, ha dovuto far guerra in Afghanistan, a caccia di Osama Bin Laden, e scelto di invadere l'Iraq, persuaso che Saddam Hussein ammassasse armi proibite. Nel farlo ha perduto la solidarietà di antichi alleati e dissolto in patria la solidarietà nazionale. Oggi in testa sullo sfidante John Kerry per un esiguo 48% a 46, con il 6% di incerti, Bush polarizza l'opinione pubblica come nessuno dei suoi predecessori moderni. Amato dall'86% dei repubblicani, è detestato dal 92% dei democratici, in un'America spaccata in due. L'astio che circonda ormai la politica di Bush, spesso amplificato dall'arroganza di membri dell'amministrazione, rende difficile il giudizio sereno sui suoi quattro anni a Washington. Ha reagito bene all'11 settembre, sforzandosi di conciliare la nazione ferita e aprendo alla Nato e ai musulmani, ma presto ha lasciato prevalere gli spiriti partigiani. Il consenso che ancora lo sostiene deriva dalla chiara assunzione che la guerra al terrorismo non sarà né breve, né indolore.

La visione che solo il radicamento della democrazia in Medio Oriente garantisca una pace stabile e giusta è una novità, che troppo in fretta gli europei hanno irriso. Il senatore Kerry riconosce la svolta strategica di interesse nazionale, e non la cancellerà se eletto. I democratici provano a incalzare Bush sul fianco più esposto: avendo intuito che la guerra contro il terrore è globale, non è riuscito a combatterla sui due fronti, il militare e il politico-culturale, per scalzare l'egemonia di Osama su generazioni di musulmani. Bush non ha negoziato con forza in Medio Oriente, lasciando Israele e palestinesi senza arbitro e non mobilitando una coalizione ampia contro il fondamentalismo terrorista, impegnato all'offensiva sanguinosa, da Bagdad a Kabul. Così la presidenza che si voleva «conservatrice con tenerezza», deve riproporsi agli elettori come guida sicura in tempi di guerra.

I temi domestici, posti di lavoro che svaniscono, deficit proiettato nel 2015 a 2.700 miliardi di dollari (2.200 miliardi di euro), bilancia commerciale squilibrata, tasse ridotte e spesa che sale, soprattutto nella sanità, addio al primato della ricerca sulle cellule staminali, appassionano parte degli elettori. Molti cittadini della Repubblica americana voteranno invece per un comandante in capo. Kerry propone di continuare la guerra con gli alleati e usando anche la diplomazia. Bush di andare avanti da soli, ma non sbattendo più la porta in faccia all'Onu. Con il professor Graham Allison, consigliere progressista di Kerry a prevedere in un suo libro un prossimo attentato nucleare contro gli Stati Uniti e migliaia di pacifisti in marcia a Manhattan, il 2004 è anno di guerra. E a un Paese in guerra Bush chiede il voto.

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