Da La Repubblica del 04/08/2004
Il Brent al massimo degli ultimi 13 anni. Tra le ragioni: la domanda cinese, il caso Yukos e gli attacchi in Iraq. Giù Wall Street
Il greggio brucia tutti i record
A New York supera 44 dollari. L´Opec non riesce a produrre di più
Sono andati ko ieri i titoli di molte delle compagnie aeree europee
Gli esperti: "I prezzi dei carburanti salgono ma la domanda resta ancora rigida"
di Gianfranco Modolo
MILANO - La corsa del greggio non si arresta più. Il petrolio leggero americano, quotato al Nymex, ha toccato ieri un nuovo record storico: 44,24 dollari al barile, mentre il Brent a Londra è salito a 40,45 dollari, ai livelli della prima guerra del Golfo di tredici anni fa.
A New York sono quotazioni mai toccate in precedenza, anche se in termini di potere d´acquisto i 42 dollari degli inizi degli anni Ottanta equivalgono a circa 80 dollari attuali. Si tratta comunque di una corsa che pare inarrestabile a causa anche della crisi della russa Yukos e della strabordante domanda della Cina, assetata di petrolio, che limitano la disponibilità di greggio sui mercati mondiali. Una corsa che ieri è stata alimentata anche dall´attacco all´oleodotto iracheno che da Mosul trasporta il greggio al Mediterraneo, e all´ennesima presa di posizione dei vertici dell´Opec, che per bocca del presidente dell´organizzazione, Purnomo Yusiantoro, ha detto chiaramente che i prezzi attuali sono folli ma che l´Opec non è in grado di aumentare la produzione per calmierare le quotazioni. In pratica, una dichiarazione di impotenza dietro cui si nasconde in realtà la volontà di veder salire le entrate dei paesi produttori. «Il ministro del petrolio dell´Arabia - ha riferito il presidente dell´Opec riferendosi ai 9,5 milioni di barili annunciati da Riad per agosto - ha detto che il suo paese è in grado di aumentare la produzione, ma che purtroppo non può farlo subito».
A questo punto, dopo essere saliti di oltre il 30 per cento dall´inizio dell´anno, i prezzi del greggio potrebbero arrivare a 50 dollari al barile, come preconizzano i trader del Nymex, che vedono gli operatori coprirsi sulle consegne a termine del prossimo autunno a qualsiasi prezzo ogni qual volta si assiste a un evento di stampo terroristico, quali gli attacchi alle strutture irachene. Del resto, sul costo del barile, oltre alla posizione dell´Opec, pesano anche il caso Yukos e la «sete» di oro nero dell´industria cinese. La situazione della Yukos, che aveva minacciato di fermare la produzione di greggio se il governo non avesse allentato la presa sulla società, appare per ora in una fase di stallo. Ma i rischi per il mercato non sono tramontati, anche se sembra ormai certo che l´azienda uscirà dal controllo degli oligarchi per finire nelle mani di gruppi privati vicini al presidente Vladimir Putin. La «sete» di petrolio della Cina, invece, appare decisamente preoccupante: le importazioni di petrolio sono infatti salite quest´anno a un ritmo del 14,5% e il prossimo ano il governo ne limiterà la crescita, ma sempre a un tasso dell´8%.
Tutto questo impedisce il ricostituirsi delle scorte e il senso di penuria è alimentato anche dall´impiego quasi totale della flotta petrolifera disponibile. Insomma, si assiste al cocktail perverso di carenza di mezzi di trasporto, incapacità di aumentare la produzione, terrorismo e aumento della domanda. Un cocktail che pesa sui consumatori. Le associazioni italiane hanno infatti calcolato che se non si provvederà a defiscalizzare in parte il prezzo dei prodotti petroliferi (4-5 centesimi al litro), il rialzo costerà quest´anno a ogni famiglia un onere aggiuntivo di 465 euro.
A New York sono quotazioni mai toccate in precedenza, anche se in termini di potere d´acquisto i 42 dollari degli inizi degli anni Ottanta equivalgono a circa 80 dollari attuali. Si tratta comunque di una corsa che pare inarrestabile a causa anche della crisi della russa Yukos e della strabordante domanda della Cina, assetata di petrolio, che limitano la disponibilità di greggio sui mercati mondiali. Una corsa che ieri è stata alimentata anche dall´attacco all´oleodotto iracheno che da Mosul trasporta il greggio al Mediterraneo, e all´ennesima presa di posizione dei vertici dell´Opec, che per bocca del presidente dell´organizzazione, Purnomo Yusiantoro, ha detto chiaramente che i prezzi attuali sono folli ma che l´Opec non è in grado di aumentare la produzione per calmierare le quotazioni. In pratica, una dichiarazione di impotenza dietro cui si nasconde in realtà la volontà di veder salire le entrate dei paesi produttori. «Il ministro del petrolio dell´Arabia - ha riferito il presidente dell´Opec riferendosi ai 9,5 milioni di barili annunciati da Riad per agosto - ha detto che il suo paese è in grado di aumentare la produzione, ma che purtroppo non può farlo subito».
A questo punto, dopo essere saliti di oltre il 30 per cento dall´inizio dell´anno, i prezzi del greggio potrebbero arrivare a 50 dollari al barile, come preconizzano i trader del Nymex, che vedono gli operatori coprirsi sulle consegne a termine del prossimo autunno a qualsiasi prezzo ogni qual volta si assiste a un evento di stampo terroristico, quali gli attacchi alle strutture irachene. Del resto, sul costo del barile, oltre alla posizione dell´Opec, pesano anche il caso Yukos e la «sete» di oro nero dell´industria cinese. La situazione della Yukos, che aveva minacciato di fermare la produzione di greggio se il governo non avesse allentato la presa sulla società, appare per ora in una fase di stallo. Ma i rischi per il mercato non sono tramontati, anche se sembra ormai certo che l´azienda uscirà dal controllo degli oligarchi per finire nelle mani di gruppi privati vicini al presidente Vladimir Putin. La «sete» di petrolio della Cina, invece, appare decisamente preoccupante: le importazioni di petrolio sono infatti salite quest´anno a un ritmo del 14,5% e il prossimo ano il governo ne limiterà la crescita, ma sempre a un tasso dell´8%.
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