Da Il Messaggero del 03/08/2004

LIslam difende le chiese

di Marcella Emiliani

RIVENDICANO con orgoglio 1400 anni di pacifica convivenza con l’Islam ed ora non accettano che il terrorismo arrivi a scavare un solco incolmabile tra loro e i musulmani d’Iraq. All’indomani dei cinque attentati che hanno colpito i cristiani a Bagdad e a Mossul, facendo 11 morti e decine di feriti, gli stessi cristiano-iracheni - per bocca di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Babilonia dei Caldei e presidente dell’Assemblea dei vescovi cattolici - sono i primi a perdonare gli attentatori, ma lanciano un allarme più che giustificato sulle loro sorti in un paese tanto dilaniato.

Sono appena 800.000 su circa 22 milioni di abitanti, solo il 3% della popolazione, ma hanno testimoniato nei secoli la capacità di convivere con altre religioni rivelate e la loro comunità è arrivata al Terzo Millennio come una piccola arca di Noè, ricca di tutta la tradizione di riti e liturgie in cui la chiesa cristiana ha imparato a declinarsi fin dalle sue origini. Sono assiro-nestoriani, siro-cattolici, siro-ortodossi, armeni e soprattutto cattolici di rito caldeo che stanno particolarmente a cuore al Pontefice che ha manifestato loro tutta la sua solidarietà.

Il governo ad interim iracheno non ha avuto dubbi nell’attribuire la responsabilità dei cinque attentati di domenica scorsa ad al Zarkawi, il proconsole di Al Qaeda sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. Prove ovviamente non ce ne sono ma è indubbio che colpendo i cristiani si sia voluto colpire in generale l’Occidente che - nella mente manichea e forsennata del peggior islamismo radicale - fa tutt’uno col cristianesimo. Ancora di più - come hanno denunciato gli stessi cristiani d’Iraq - si è voluta colpire una tradizione di tolleranza che mal si accorda col clima di guerra civile che gli al Zarkawi di turno vorrebbero disseminare in Iraq per renderlo definitivamente ingovernabile.

Che il pericolo sia proprio questo lo testimonia il discorso che il leader spirituale degli sciiti, l’ayatollah al Sistani, ha pronunciato a caldo subito dopo gli attentati, lui in genere così schivo e poco propenso a commentare i fatti di cronaca. «Gli attentati - ha detto al Sistani - colpiscono l’unità, la stabilità e l’indipendenza dell’Iraq... Noi denunciamo questi crimini orribili e riteniamo necessaria la collaborazione di tutti, governo e popolazione, per mettere fine alle aggressioni contro gli iracheni. Sottolineiamo inoltre l’importanza del rispetto del diritto dei cristiani iracheni a vivere in Iraq e di quello delle altre minoranze religiose». Più chiaro non poteva essere, anche se il rispettabile ayatollah si ostina - come gran parte degli iracheni - a considerare la politica stragista che sta insanguinando il paese come frutto di un complotto tutto esterno, come opera di soli “stranieri”, e non come il sintomo di una guerra civile strisciante che è invece il frutto più avvelenato dell’intera guerra in Iraq.

I precedenti atti di aggressione contro i cristiani d’Iraq, quelli che soprattutto dal 1996 al 1998, hanno costretto circa 150.000 di loro ad emigrare negli Stati Uniti e in Canada e circa 10-11.000 a rifugiarsi in Giordania, non avevano ovviamente nulla a che vedere con l’attuale guerra, ma erano invece da ricondursi alle lotte spesso controverse dell’opposizione a Saddam Hussein. Lui, il raís, ci teneva ad essere considerato un “illuminato” che garantiva piena cittadinanza a tutte le fedi religiose; non per nulla il suo braccio destro Tareq Aziz era un cristiano. Ma suo figlio Uday si divertiva nella sua rivista “Babil” a indicare i cristiani come i peggiori nemici dell’Iraq e ad aizzare contro di loro la popolazione. Tutto questo ora è finito, ma nell’Iraq del dopo Saddam la religione si è presa una rivalsa storica e, pur con tutte le buone intenzioni dei leader spirituali islamici, nel clima di disorientamento generale, la tentazione di colpire dei “capri espiatori” purtroppo è forte e può essere facilmente strumentalizzata.

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