Da La Repubblica del 30/07/2004

Il conto della finanza creativa

di Massimo Riva

A tre anni esatti da quell´indimenticabile comparsata televisiva nella quale l´allora ministro Tremonti denunciava scandalizzato il presunto buco ereditato dal centrosinistra, tocca adesso al governo Berlusconi alzare il velo sulle sue vergogne finanziarie. Che si riassumono in un dato: un deficit in corsa verso il 4,4 per cento del Pil, nettamente superiore a quello attribuito nel luglio 2001 al lascito del ministero Amato che, infatti, non fu oggetto di specifica manovra correttiva.

Il tutto, per giunta, con due aggravanti non di poco conto. Prima, la dilapidazione dell´avanzo primario, cioè di quel surplus fra entrate e uscite al netto degli interessi che, come sa ogni buon padre di famiglia, è l´indicatore fondamentale di sostenibilità del debito per qualunque soggetto: Stato, azienda o, appunto, famiglia. Carlo Azeglio Ciampi lo aveva portato sopra il cinque per cento in rapporto al Pil, con la gestione Tremonti siamo scesi a meno della metà. Seconda e conseguente aggravante: la brusca frenata nella riduzione del debito. Nel quinquennio precedente si era realizzato un taglio secco di 15 punti percentuali dal 125 al 110 rispetto al Pil. Nel triennio berlusconiano la discesa è stata di appena tre punti, tanto che per chiudere il 2004 almeno a quota 106 si ammette la necessità di mandare in porto entro dicembre nuove dismissioni pubbliche per una ventina di miliardi.

Auguri.

Con l´aria di chi vuol far credere che, se avesse avuto le mani libere, chissà quali meraviglie avrebbe realizzato, Berlusconi non ha mancato l´occasione per prendersela una volta di più con l´Europa, dicendo che "il Patto di stabilità è un cappio al collo".

È, al contrario una fortuna: se, a dispetto dei vincoli europei, si è arrivati in così breve tempo a peggiorare tutti i principali saldi della finanza pubblica, oggi c´è da chiedersi - con il sollievo dello scampato pericolo - quali disastri, forse irrimediabili, sarebbero stati combinati in assenza del pur lasco guinzaglio europeo.

In questo scenario non c´è da stupirsi che il Dpef (Documento di programmazione economico-finanziaria) sottoposto ieri sera al Consiglio dei ministri si qualifichi in sostanza come la mappa di un cammino a ritroso per rimediare ai guasti della finanza "creativa" dell´ultimo triennio nel tentativo di riguadagnare almeno le posizioni contabili di partenza. Solo che l´impresa si presenta quanto mai ardua: un po´ perché si parte da una posizione più degradata e un altro po´ perché il tempo perduto obbliga a un contrappasso di rigore che non potrà certo avere effetti espansivi sull´attività economica. Già il governo ammette, per esempio, che la stangatina appena varata per il 2004 si porterà via non meno di due decimali (da 1,4 a 1,2) nel tasso di crescita del Pil. Se tanto vale per la manovra da sette miliardi nel 2004, figuriamoci dunque quale impatto potrà avere l´indispensabile stangata da 24 sull´economia del prossimo anno. Con buona pace delle insistenti guasconate berlusconiane in tema di sviluppo.

E´, però, sul terreno della finanza pubblica che il tempo perduto nell´ultimo triennio presenterà il conto più salato. Dalle cifre governative si ricava, infatti, che la riconquista di un avanzo primario non troppo lontano da quello ricevuto in eredità da Ciampi richiederà un arco di tempo notevole. Secondo le stime del neoministro Siniscalco si dovrebbe arrivare a quota 4,8 per cento sul Pil non prima del 2008: come dire che ci vorranno cinque anni per recuperare ciò che si è disinvoltamente sperperato negli ultimi tre. Un discorso analogo riguarda la tendenza del debito pubblico: il fatidico obiettivo della parità con il Pil, un tempo previsto per il 2005, viene ora postdatato al 2007. Ma a fronte di un piano di privatizzazioni - nell´ordine dei cento miliardi - così imponente da suscitare la naturale incredulità che accompagna sempre i programmi troppo vasti.

Alla logica del cammino a ritroso vorrebbe ispirarsi anche un altro capitolo importante del Dpef, quello sull´inflazione. La stima è che la corsa dei prezzi si fermi all´1,6 per cento nel 2005 e all´1,5 nell´anno seguente.

Per il momento siamo ancora a quota 2,3 (l´ultimo dato è di ieri) e l´unico fattore che potrebbe avvalorare simili previsioni è la grande frenata dei consumi che, in questa primavera, hanno toccato il livello più basso dal 1996.

I sindacati hanno definito l´obiettivo del governo "velleitario". L´aggettivo più giusto è "strumentale": immaginando una crescita dei prezzi dell´1,6 per cento nel 2005, in realtà si punta solo a indicare un tetto per il rinnovo dei contratti di lavoro. Dunque, in questo caso, non siamo di fronte a una previsione economica fondata, ma soltanto all´indicazione di una cifra negoziale lontana dalla realtà dei mercati e della vita quotidiana dei cittadini. Su queste basi il conflitto sociale è garantito.

Non poteva mancare, infine, nel Dpef un capitolo dedicato a quel taglio delle tasse che è la principale bandiera politica del presidente del Consiglio. Va preso atto che dai proclami sulle due sole aliquote Irpef a partire dal gennaio 2005 si è ora scesi a più miti consigli: si ipotizza sempre una sforbiciata, ma di quantità indefinita nell´arco di un paio d´anni.

Difficile dire se si tratti di un trucco per svelenire le polemiche del momento oppure di un primo atto di consapevole resipiscenza di fronte alla plateale contraddizione tra la continua promessa del Bengodi fiscale e la necessità di presentare comunque ai contribuenti una stangata di 24 miliardi per il 2005 solo per dare una prima raddrizzata ai conti pubblici. Per sciogliere questo dubbio occorrerà attendere il passaggio dalle vaghe parole del Dpef al concreto degli specifici provvedimenti della legge finanziaria di fine settembre.

Solo allora si capirà anche se Siniscalco o chi per lui sarà riuscito a guarire Silvio Berlusconi dall´ossessione compulsiva che lo porta a straparlare in tema di tasse.

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