Da La Repubblica del 07/07/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/g/sezioni/politica/lugliocdl1/giancrisi/...

COMMENTO

Il piano inclinato della crisi

di Massimo Giannini

CRISI, rimpasto, appoggio esterno, elezioni anticipate. Il quadro politico si va "sfarinando", avrebbe detto Rino Formica, ai tempi dell'esecrata Prima Repubblica. Le convulsioni del centrodestra ricordano sul serio quelle dei vecchi "pentapartiti" di una volta, quando bastavano un no di Altissimo o un veto di Cariglia a innescare un'escalation, a far perdere il controllo e a portare dritti dritti alla caduta di un governo. Dopo l'uscita di scena di Tremonti, i nervosismi di An, le tensioni della Lega e da ieri anche l'ultimatum dell'Udc, per la prima volta si ha la netta sensazione che il governo Berlusconi possa davvero scivolare sul piano inclinato di una crisi. Formale. E non più solo sostanziale, come si può considerare quella in corso.

Follini dà dieci giorni al premier. La contromossa del leader dell'Udc è la risposta, immediata e sorprendente, alla mossa appena compiuta da Berlusconi nella gestione del dopo-Tremonti. Il Cavaliere non accetta il declino della sua "monarchia", ma rilancia se stesso come unico depositario e garante esclusivo del contratto con gli italiani: l'Ecofin l'ha piegato lui, la riforma fiscale la farà lui, il centrodestra è e resterà per sempre lui. Follini si smarca. Il sovrano gli chiede di entrare a corte e lui se ne va a Strasburgo. Di più: adesso annuncia l'appoggio esterno.

Questo scarto improvviso riaccende i conflitti nella Cdl. Fini offre una sponda all'Udc. Libera di nuovo lo stesso "braccio politico" che aveva calato la mannaia sulla testa di Tremonti, e che dopo un azzardo così temerario sembrava ormai inservibile per An. Sul fronte opposto, e per ragioni geometriche uguali e contrarie, la Lega rientra in forte fibrillazione: dopo averla "barattata" con il premier in cambio del dimissionamento del ministro del Tesoro, vede la devolution minacciata dagli emendamenti dei centristi.

In questo clima, e con un combinato disposto di scivolamenti progressivi, Berlusconi rischia seriamente di perdere il controllo della sua coalizione. L'appoggio esterno dell'Udc è già, di per sé, un ponte sospeso verso la crisi. Il premier può puntare a un reincarico, a redistribuire i ministeri di Buttiglione e Giovanardi ad An, magari a governare anche senza l'Udc. Avrebbe la maggioranza alla Camera (con 309 deputati) ma non più a Palazzo Madama (si fermerebbe a 143 senatori). Può permettersi di reggere questa sfida anche solo per i prossimi due mesi, con un Parlamento chiamato a deliberare su temi cruciali, dalla stessa devolution alla delega sulle pensioni?

Il Cavaliere schiuma rabbia contro gli alleati infedeli. Ma stavolta paga i troppi errori che ha commesso, e che hanno innescato questa spirale di destabilizzazione. Non vuole tornare a votare, né subito né con le regionali del 2005, perché crede davvero nella profezia che ha consegnato a "Panorama" una settimana fa: "Se il governo andasse a casa, alle elezioni anticipate vincerebbe la sinistra...". Ma proprio aver reso esplicito questo timore è stato il primo errore: se in teoria doveva servire a rafforzare le ragioni del patto politico con An e Udc dopo la doppia batosta europee-amministrative, in pratica ha ulteriormente appannato la sua leadership e indebolito la sua forza contrattuale dentro il Polo. Per restare alla metafora folliniana, è stato come se il monarca avesse riconosciuto il possibile, e persino incombente venir meno della fonte di legittimazione del suo potere. Da un giorno all'altro, Fini e Follini hanno capito che il governo "straordinario" del sovrano assoluto, incoronato tre anni fa dalle prime elezioni autenticamente bipolari, si può ormai declassare e ordinario governo di coalizione da Ancien Regime.

Anche questo, venerdì scorso, ha spinto An all'affondo definitivo contro Tremonti. Anche questo, oggi, spinge l'Udc nell'anticamera dell'appoggio esterno. La consapevolezza che, se c'è anche una sola possibilità di cambiare la natura di questo centrodestra, trasformandolo in un'aggregazione politica pubblica e non più in una proprietà personale privata, questo è il momento di tentare. Perché il sovrano è debole e sfibrato. E la sua arma più convincente, il voto anticipato, è drammaticamente spuntata.

Le questioni che si pongono, a questo punto, sono essenzialmente due. La prima questione: è realistico scommettere su un possibile cambiamento di questo centrodestra? Detto ancora più brutalmente: è possibile scommettere su una modificazione genetica del berlusconismo? Perché di questo si tratta, ormai. Interrompere il rapporto esclusivo, diretto e quasi talmudico, che l'"eletto" ha stabilito con i suoi elettori, convinto che l'unico messaggio da veicolare al Paese sia il suo verbo e la sua immagine. Riempire di politica (e dunque di riforme vere, dibattute in Parlamento e condivise con le parti sociali) il vuoto mediatico che finora il Cavaliere ha mascherato solo di miracoli mancati e di sogni azzurri. Non c'è solo il problema di "riequilibrare l'asse della coalizione", come dicono gli alleati scontenti, per correggere le forzature imposte al Paese dal "fronte del Nord", a partire dalla devolution che è solo un feticcio padano e non certo una priorità nazionale. Non c'è solo il problema di rimettere in moto un progetto politico che corra veloce su quattro ruote a trazione integrale, e non più su due tandem (Forza Italia e Lega davanti, An e Udc dietro) che arrancano in modo asincrono per strade diverse.

C'è anche questo, naturalmente: e su questi binari viaggia la trattativa tutto sommato più banale, quella del rimpasto. Ma c'è anche molto di più. C'è in ballo l'essenza stessa dell'avventura politica berlusconiana, che è leaderista perché è nata su basi aziendali. È populista ma non popolare. È liberista ma non liberale.

Scommettere sul cambiamento di questo centrodestra, dunque, vuol dire scommettere esplicitamente sullo snaturamento del berlusconismo. E, implicitamente, sul suo superamento. È una prospettiva concreta? L'uscita di scena di Tremonti, che del berlusconismo è stato il simbolo operante in economia, ha aperto uno spiraglio. L'idea di una successione affidata a Monti (che per il berlusconismo oggi avrebbe rappresentato una pericolosa contaminazione, domani una sicura alternativa) ha alimentato qualche illusione. Ma l'annuncio di un interim a tempo indeterminato dimostra ancora una volta che il Cavaliere non concepisce un centrodestra che sia "altro" da sé. Non tollera un'alleanza plurale, perché declina la politica solo al singolare, rivendicando a sua volta la sua "alterità" come valore supremo e come unico fattore di modernizzazione.

La seconda questione: qual è il prezzo di questa scommessa? In altre parole: cosa hanno messo nel conto Follini e Fini, nel caso in cui riescano o falliscano il tentativo di passare "dalla monarchia alla repubblica"? Il tema è complesso. Chiama in causa prima di tutto il destino della Cdl, come l'abbiamo conosciuta nel 2001. Un destino che ormai pare segnato, in un modo o nell'altro, sia pure con uno scarto temporale tra le strategie dell'Udc e quelle di An. Follini, già oggi, sta chiaramente investendo sul dopo-Berlusconi. Diffida delle virtù riformatrici del Cavaliere. L'autonomizzazione l'ha premiato alle elezioni del 13 giugno. Con l'ultimatum di ieri, alza la posta e si gioca fino in fondo le sue carte. Se piega Berlusconi (ipotesi che ritiene improbabile) resta nella maggioranza con il merito di averla rinnovata. Se non piega Berlusconi (ipotesi che considera quasi certa) continua la sua corsa parallela: nel centrodestra, ma fuori dalla Casa delle Libertà. Se il Cavaliere resiste fino al 2006 e si ricandida, è pronto magari a un patto di desistenza. Se il Cavaliere cede prima o non si ricandida, è pronto a un nuovo progetto neo-centrista finalmente alternativo a Berlusconi. In tutti e due i casi, Follini ha già compiuto una scelta. Ha ormai separato il proprio futuro da quello dell'uomo di Arcore. L'identità post-democristiana, cattolica e moderata, gli garantisce comunque uno sbocco riconoscibile e riconosciuto.

Fini, che pure è uscito vincitore dalla sfida con Tremonti e che pure condivide gli obiettivi di Follini, non può ancora compiere, oggi, lo stesso strappo. È vicepremier, e fin dall'inizio della verifica di un anno fa ha giocato la sua partita all'interno della compagine di governo. È ormai un leader pienamente legittimato, ma An ha ancora bisogno di mettere le vele al vento dietro Forza Italia. L'identità ex-missina del suo partito non è ancora del tutto definita e risolta. Non può, ancora, fare a meno di Berlusconi. Ma non rinuncia, nei limiti del possibile, a fare la sua battaglia dentro questo centrodestra. E dunque anche lui, in definitiva, lavora per un altro centrodestra. Anche se proiettato molto più sul domani, e molto meno sull'oggi.

Se il Cavaliere si confermerà un organismo politico "geneticamente non modificabile", il prezzo della scommessa di Follini e Fini è uno solo: abbandonare il sovrano al suo destino. Ma il prezzo della scommessa, per il Paese, non possono essere due anni di galleggiamento.

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