Da La Repubblica del 01/07/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/f/sezioni/politica/ballott/curall/curall...

IL COMMENTO

La guerra degli alleati

di Curzio Maltese

C'erano molti modi di reagire alla sconfitta elettorale ma Silvio Berlusconi ha scelto il peggiore. Circondato da pessimi consiglieri, il premier oscilla fra i classici deliri d'onnipotenza del populista senza più popolo e la padronale incapacità di mediare. Anche quando scende dal monumento equestre e prova a fare il politico normale, perfino un po' doroteo. A giudicare dai primi giorni, il pericoloso declino di Berlusconi può riservare brutte sorprese e colpi di mano, nella migliore delle ipotesi una crisi lunga due anni.

Nell'interesse del Paese, bisogna sperare che qualche testa pensante della maggioranza se ne renda conto e acceleri la fine dell'avventura. L'ipotesi di andare al voto ad aprile del 2005 è stata del resto il vero argomento di discussione in questi giorni di verifica nella maggioranza.

Uno spettro evocato da tutti contro tutti, da An e centristi contro la Lega, dalla Lega contro Berlusconi, dallo stesso premier contro gli alleati. Paradossalmente, la minaccia di andare a elezioni anticipate è oggi l'unico tratto che accomuna i quattro partiti di governo, per il resto distanti negli stili, nei linguaggi e soprattutto nelle scelte concrete.

Berlusconi vorrebbe rilanciare la promessa di tagli fiscali, come sempre l'anno prossimo, che gli permetterebbe intanto di far ingoiare agli italiani la stangata imminente e poi di difendere la poltrona di Giulio Tremonti. Fini e An insistono sulla svolta in politica economica e arrivano a firmare un documento di critica a Tremonti che suona quasi un plagio delle tesi di Bersani e Letta. Gli eredi di Bossi, sospinti da una base leghista sul piede di guerra, recitano l'ultimatum: o federalismo o crisi. Nella furibonda rissa, il lungimirante Follini si sfila di lato e reclama il ritorno al proporzionale, che è un bel modo democristiano per prepararsi a un futuro senza Berlusconi. Fuori dal palazzo, i sindacati preparano un altro autunno caldo e la Confindustria di Montezemolo, dopo aver invocato la fine dei litigi, studia una possibile successione.

Per trovare la famosa "quadra" in questa guerra per bande ci vorrebbe un genio della politica e Berlusconi è soltanto un genio del populismo. Anzi, era. Senza più l'aureola del leader carismatico, smunto dal Signore e dall'elettorato, il Cavaliere si rivela da puro politico decisamente mediocre, se non goffo. Dice che il governo "non cambia" ma aggiunge che "ci saranno new entry". Parla per un'ora con Tremonti di manovra correttiva ma assicura "le tasse scenderanno". Si scontra prima con Fini e Casini, che lo ammettono, e racconta che i colloqui "sono stati molto positivi". Si contraddice, accumula gaffe, finge di poter dare tutto a tutti. Lo faceva anche prima ed era la prova della sua forza, di un superiore arbitrio sulle regole della politica valide per i comuni mortali, quei premier che "non avevano vinto nemmeno una coppa dei Campioni". Ma ora che con la signoria di Milano è crollato il castello dei simboli vincenti, gli stessi numeri suonano come una patetica ammissione d'impotenza e provinciale dilettantismo.

Le uniche due carte rimaste in mano al premier, nel gioco del "dopo Berlusconi", sono il patto di potere fra gli alleati, insomma le poltrone, e il possibile jolly di un'improvvisa ripresa economica. La prima carta si è indebolita dopo i risultati elettorali. Gli alleati vedono sempre di più la leadership del Cavaliere come una palla al piede e non più una risorsa miracolosa. In definitiva, il voto ha detto che la destra è ancora forte nel Paese, gli italiani si sono soltanto stufati di Berlusconi. Legarsi fino in fondo al suo carro, potrebbe invece significare per Fini, Follini e la Lega essere trascinati a una disfatta totale. Quanto all'imminente ripresa economica, ci crede ormai soltanto Tremonti, che su questa messianica aspettativa ha impostato tre anni di politica economica. Il modello è quello delle travolgenti riprese economiche di metà mandato che hanno accompagnato la lunga stagione di Reagan e Thatcher. Ma si tratta di un parallelo fondato sull'ideologia e non sull'analisi economica. L'Italia del Duemila non assomiglia agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna degli anni Ottanta, né può contare sullo stesso potenziale di crescita economica e demografica.

Il governo, per i vincoli dell'Europa, non può stimolare i consumi sfondando il debito pubblico, come fecero gli idoli di Tremonti. Infine Berlusconi, con tutta evidenza, non è né Reagan né la signora Thatcher. Fare gli americani, in questo stato, significa avviare serenamente l'economia nazionale verso un baratro oltre il quale ci sono lacrime, sangue e sacrifici. Sono ormai in molti a capirlo, in troppi per mantener viva la fiaba fondante del berlusconismo. Una fiaba che non trova più credito nella nuova Confindustria di Montezemolo, nel Nord Est già miracolato e ora in crisi nera.

Nella stessa Milano, culla del berlusconismo, che ha voltato le spalle al suo signore col gelido calcolo di una piazza d'affari dove si sanno leggere i bilanci. Due conti in tasca e si è passati in fretta dal provvisorio "ghe pensa lu" a un definitivo "dura minga". Nessuno di questi mondi accredita ormai l'equazione berlusconismo uguale modernizzazione. Al contrario, la ricaduta del governo nei litigi della "verifica", nei riti del "rimpasto", suona come un'insopportabile revival del passato, una tragica perdita di tempo. un'agonia politica senza sbocco, una permanente "crisina" di governicchio alla quale preferire la liberazione di una seria crisi di governo.

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