Da Il Mattino del 29/06/2004

Passaggio di poteri anticipato: quasi un blitz

di Vittorio Dell'Uva

Niente di particolarmente solenne. A palazzo, come nelle strade di Baghdad. Il passaggio di consegne del potere in Iraq molto assomiglia ad un atto notarile e formale. Che riserva, soltanto, la sorpresa dei tempi.

Due giorni prima della scadenza del 30 giugno, Paul Bremer - il proconsole di Bush a Baghdad - consegna il Paese ad Ayad Allawi, il primo ministro scelto con cura da Washington. È l’ora in cui l’America dorme e l’Europa si sta appena svegliando. Viene evitato, giocando d’anticipo, che la guerriglia e il terrorismo si propongano come protagonisti nel giorno in cui l’Iraq riconquista una sovranità che, per la verità, appare un po’ limitata. L’«atto di cessione» è contenuto in una cartellina blu che passa di mano alla presenza di pochissimi intimi e sotto lo sguardo di Misdhat Al Mahmoud, presidente della Corte Suprema.

Il neo presidente Ghazi Al Yawar, legato al potere saudita, indossa la tunica araba; Allawi se ne sta sprofondato in una poltrona con accanto il vice primo ministro Barham Salam; Bremer ha al suo fianco il rappresentante britannico a Baghdad, Davis Richmond. Il solo uomo in divisa è il generale Mark Kimmitt, il portavoce della coalizione. Risalta un’assenza importante. Viene applicata la risoluzione 1546 dell'Onu, ma non c'è nessun rappresentante del Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite a far da testimone e garante.

Le frasi d'occasione non mancano. «È il giorno storico che ogni iracheno aspettava da tempo. Torniamo nella comunità internazionale», sentenzia Al Yawar. Allawi si affida ad Allah in vista «di un lavoro difficile» e promette che garantirà «sovranità, indipendenza ed unità». Paul Bremer dispensa pillole di ottimismo. «Ormai indietro non si torna», dichiara stringendo più mani. Ha fretta di imbarcarsi su un aereo già pronto a decollare per gli Stati Uniti. D'ora in poi a far da tutore all'Iraq sarà John Negroponte che sta per insediarsi nella più grande ambasciata che Usa abbiano mai avuto a disposizione nel mondo e destinata ad ospitare millesettecento persone. Un formalismo diplomatico che sfiora la farsa lo tiene ancora in lista di attesa: si aspetta il gradimento del nuovo esecutivo modellato da Washington in base alle proprie esigenze.

Riappare sul tetto del palazzo del governo che fu di Saddam la bandiera irachena. Piccole cerimonie di commiato si consumano all'interno della «zona verde», la cittadella fortificata da cui, blindato, si irradierà il nuovo potere. C'è tra gli americani chi resta e chi parte. Più che mai gli elicotteri Usa continuano a seguire il corso del Tigri con le armi puntate su eventuali obiettivi. Marines controllano, dalle torrette dei carri armati, gli accessi in città.

Prima linea e vetrina in città sono riservate alla polizia e a qualche reparto del minuscolo esercito appena ricostruito. Tutti sono chiamati a mostrare efficienza, anche se restano pur sempre disattenti e sbracati ai posti di blocco. Fanno fatica a darsi da fare sotto il sole che picchia. A tratti cedono all'isteria, applicando testardamente regole che gli americani impongono, come se nulla fosse cambiato. Nel primo giorno di «libertà» dell'Iraq accade che gli accessi agli albeghi che ospitano gli occidentali siano sbarrati per non chiariti motivi di sicurezza.

L'Iraq «sovrano» sarà ancora costretto ad accettare stampelle, prima di poter dire davvero di essere in grado di camminare da solo. Nella sua ambiguità, la formula della risoluzione dell'Onu consente ai centosessantamila soldati della coalizione di restare nel Paese per altri diciotto mesi, sempre che il governo iracheno - che avrebbe qualche difficoltà nel permetterselo - non imponga il «go home», «tornate a casa». Ampia resta, in assenza di una giurisdizione, la possibilità di manovra per gli americani e i loro alleati. Ancora poco chiaro è a chi dovranno rispondere gli oltre ventimila «contractors» stranieri che si muovono liberamente con il mitra in spalla, impiegati in servizi di protezione e di scorta. Sul ruolo di questa milizia che agisce senza dover tener in conto le regole, un protocollo non è stato ancora siglato.

Resta, tra molti accordi non proprio palesi, l'opzione degli Stati Uniti sul destino di Saddam Hussein. Il premier Allawi ha annunciato che l'ex dittatore, non più formalmente nelle mani degli americani sarà probabilmente portato «in manette» entro il 4 luglio innanzi ad un tribunale iracheno per l'avvio del processo. Ma a sorvegliare la sua cella resteranno pur sempre i marines.

Entro domani i ventisei ministri del nuovo governo saranno chiamati alla cerimonia del giuramento. Molto la nuova compagine sa di rimpasto, per la riconferma di esponenti della Cpa, il consiglio provvisorio appena disciolto.

Non mancheranno in ogni Ministero consiglieri occidentali, con ruoli di primissimo piano. Il premier Allawi che prova ad accreditarsi una piena autonomia, ha già fissato i punti del suo programma, annunciando misure straordinarie per la sicurezza e la lotta «spietata» al terrorismo, accompagnata dall'invito agli ex esponenti del partito Baath a non collaborare con la guerriglia.

Esplicita è apparsa la volontà di definire buoni rapporti con i Paesi della regione, incluso il vecchio nemico iraniano. Nulla che gli americani, ringraziati ieri con molto calore durante le cerimonie ufficiali, non possano non apprezzare. L'unico sussulto di natura strettamente nazionalistica lo si deve, forse, al ministro dell’Edilizia, deciso a dare per «la ricostruzione prorità assoluta alle imprese arabe e agli operai iracheni». Quanto nelle sedi delle multinazionali abbiano gradito, non è dato sapere.

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