Da Il Mattino del 28/06/2004

Iraq, conto alla rovescia

di Vittorio Dell'Uva

Molti degli uomini del Mukabarat, la polizia segreta di Saddam, stanno per tornare in servizio. E con loro non pochi degli ufficiali iscritti di ufficio al partito Baath, ma fedeli più allo stipendio che al vecchio regime. Le «consultazioni» di Yliad Allawi, che da mercoledì sarà primo ministro, non si svolgono tutte nel chiuso del consiglio di gabinetto. Nuovi «ospiti» cominciano a ottenere il «pass» per la inaccessibile «zona verde», il luogo più protetto di Baghdad dove è insediato il governo. Per non fallire, Yliad Allawi, designato da Washington come un figlio prediletto, ha bisogno soprattutto di un consenso di base che soltanto il recupero di condizioni di sicurezza gli può dare.

Prescindere totalmente da quanti, per conto del dittatore poi finito in catene, avevano in pugno il Paese lo lascerebbe in una condizione precaria ed esposta. Deve segnare punti. E in fretta. Rovesciando la politica di Rumsfeld convinto che tutto ciò che veniva dal passato debba finire in discarica.

Gli spot, non meno delle azioni concrete, possono essere utili su questo terreno. All’Iraq, che avverte come esigenza primaria il recupero della propria sovranità, Allawi ha regalato, ieri, la possibilità di riappropiarsi del destino del detenuto Saddam, relegato in una delle basi americane non lontano dall’aeroporto di Baghdad. «Dai primi di luglio verrà trasferito - ha annunciato - in una prigione sotto il controllo delle forze di sicurezza irachene. L’appoggio americano sarà limitato».

Altri messaggi, destinati a delineare la futura attività di governo non sono mancati. Con un’irruzione in campo nemico il primo ministro ha provato a far breccia nell’area contigua alla guerriglia e al terrorismo di importazione. Un’amnistia viene promessa a coloro che, non essendosi macchiati di gravi delitti, decideranno di consegnare le armi. Né mancano scelte che riguardano l’ordine pubblico. Non accadeva da tempo che nel centro di Baghdad fosse circondato un intero quartiere per una retata contro spacciatori e criminali di piccolo cabotaggio. Tra qualche raffica di mitra di troppo è accaduto a mezzogiorno di ieri.

«L’Iraq ha bisogno di un uomo forte. Penso che molti sognino un despota illuminato. Mi auguro che Allawi sia giusto. La giustizia dovrà essere alla base della sua azione politica. Se si comportasse diversamente ritorneremmo ai tempi oscuri», spiega Jean Sleyman e arcivescovo cattolico di Baghdad, il quale si spinge a ipotizzare che il Paese accetterebbe di non correre troppo verso il traguardo della democrazia. «Il potere - dice con un sorriso - in Iraq è seduzione. Per tutti».

Che Allawi sia destinato a non andare troppo per il sottile è nei fatti. Che voglia lasciare il segno, a futura memoria e in vista delle elezioni del gennaio 2005 che volentieri farebbe slittare, è scontato. L’Iraq che gli viene lasciato in eredità è un Paese da rifondare per i danni prodotti dalla dittatura e per gli errori degli americani. Lo inquina, incidendo non poco sulla sicurezza, la corruzione. Nel lungo periodo dell’embargo Saddam Hussein la legalizzò autorizzando i dipendenti dello Stato all’«autofinanziamento», vale a dire alla richiesta di mazzette anche di minimo importo. Il virus, difficile da debellare, ancora colpisce.

Baghdad potrà anche chiudere completamente i propri varchi di frontiera, ma lungo le sterminate linee di confine con i Paesi vicini, da cui si infiltrano gli oltranzisti, molti occhi resteranno chiusi in cambio di dollari. Né troppo si può sperare che il laicismo iracheno faccia da diga fermando il flusso dei promotori della guerra santa. Saddam non ha trattato con Al Qaida, ma negli ultimi anni del suo potere ha strizzato l’occhio ai fondamentalisti fino a spingersi nei giorni della guerra a chiedere all’Iran, il vecchio nemico, di allearsi con lui. Finita l’era dell’anticlericalismo e delle neutralizzazioni dei capi religiosi, gli «inquinamenti» più che mai sono possibili se «il club di Osama» non viene dissolto.

Il ribollente catino iracheno offre, al di là delle semplificazioni, anche altri spaccati. Non tutto è guerriglia o terrorismo di matrice islamica anche se l’anomalia di un esercito, non relegato in caserma e cancellato dallo straniero, ha alimentato molte maglie della resistenza. La «guerra del petrolio» non è condotta soltanto dalle squadre di Al Zarqawi che fanno saltare i siti di stoccaggio per impoverire l’Iraq. O alle tribù, soprattutto nel nord, alle quali si deve il danneggiamento di molti oleodotti e che prima della guerra incassavano royalties dal controllo del territorio e delle risorse. E sempre di natura tribale potrebbero rivelarsi molti degli agguati ai convogli militari. Ora i clan hanno il dovere di vendicare chi è stato ucciso a un ceck-point o altrove.

Allawi, navigando nel tribalismo, dovrà tra i primi impegni rastrellare le armi che ormai ogni iracheno possiede. Nei giorni del dopo-Saddam un fucile costava l’equivalente di dodici dollari. Forse se gli americani - come era stato loro suggerito di fare - avessero offerto il doppio del prezzo a chi ne era in possesso, molti delitti sarebbero stati evitati.

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