Da Il Messaggero del 04/06/2004
QUELLI CHE CE L’HANNO FATTA/ Boom di extracomunitari registrati come imprese. Commercio, manifattura, costruzioni, ristorazione i settori in cui operano
Immigrati “padroncini”: ora assumono gli italiani
Sono 140 mila gli stranieri imprenditori. Hanno 150 mila dipendenti e uno su 5 è nostro connazionale
di Corrado Giustiniani
ROMA - L’esplosione continua. Due anni fa erano 100 mila gli imprenditori immigrati d’Italia, tanto che nessuno stadio di calcio della penisola avrebbe potuto contenerli, e per un’ipotetica assise avrebbero dovuto trasferirsi al “Nou Camp” di Barcellona. Ma adesso, secondo un’indagine della Camera di commercio di Milano, sono arrivati a sfondare quota 140 mila e non troverebbero posto neppure sugli spalti del Maracana di Rio de Janeiro. Artigiani, presidenti di cooperative, padroncini, piccoli imprenditori che impiegano una, due, dieci, persino venti persone, e che cominciano a rendersi insostituibili, per esempio nell’industria manifatturiera marchigiana, in settori come la lucidatura del ferro e le verniciature.
Più degli altri hanno corso il rischio, più degli altri hanno assunto responsabilità, più degli altri hanno piantato la bandiera della permanenza. Si integrano, si sposano spesso con partner italiani, acquistano casa. Ma il dato più interessante è che hanno alle loro dipendenze anche lavoratori italiani. Sono ormai ben 30 mila, secondo l’indagine della Camera di commercio milanese, i nostri connazionali che hanno un capo marocchino o egiziano, cinese o senegalese. I posti di lavoro che hanno saputo creare sono in tutto 150 mila, e se ad essi si aggiungono i 139 mila 380 titolari stranieri (dati che si riferiscono al terzo trimestre del 2003), abbiamo un’allegra ventata di 300 mila impieghi.
Le “extra imprese”, come vengono chiamate le aziende create dagli immigrati, sono ormai il 4,1 per cento delle ditte individuali esistenti in Italia, e la loro crescita è addirittura tumultuosa: nel 2003 sono aumentate infatti del 16,1 per cento, contro un misero più 0,2 per cento, che rappresenta la variazione media di tutte le imprese individuali. Quanto alla nazionalità, è la marocchina quella che conduce, con il 17 per cento delle ditte individuali extracomunitarie, al secondo posto i cinesi, con l’11 per cento. Questa comunità guida nel settore manifatturiero e in quello degli alberghi e ristoranti, mentre ai marocchini spetta il primato nel commercio e agli albanesi quello delle costruzioni. Ancora: tra le regioni italiane, la più affollata di aziende extracomunitarie è, come è facile immaginare, la Lombardia (con 24 mila 700). Seguono Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Lazio. Ma quest’ultima regione è prima per tasso di crescita, con il 20,1 per cento.
Ma non è stato facile, almeno sino ad oggi, impiantare un’attività produttiva, per questi ospiti del nostro paese. Ricevere denaro in prestito è una fatica titanica. L’istituto di credito, infatti, pretende in genere un’ampia gamma di garanzie. Beni personali e patrimoniali, un conto corrente ben alimentato, una denuncia dei redditi pesante. Specie all’inizio della sua attività, lo straniero non è in grado di rispondere a tutti questi requisiti. Per questo gli capita di venire marchiato con l’aggettivo “non bancabile”. Significa che il rubinetto del credito, per lui, non si può aprire. Ecco perché, fra gli imprenditori immigrati, è assai diffusa la forma societaria cooperativa, che consente di suddividere gli sforzi finanziari.
Tutto questo, però, fino a ieri. Le banche italiane sembrano essersi rese conto, adesso, che la clientela immigrata può essere un business, e hanno celebrato la scoperta in un convegno assai interessante, organizzato a Palazzo Altieri dalla loro associazione, l’Abi, assieme al centro di ricerche Cespe (vedi altro articolo). Fra tanti buoni propositi ed esperienze che meritavano di essere comunicate, quella che resta più impressa, forse, è di un piccolo istituto lombardo, la Cassa di credito cooperativo di Treviglio. Alla fine dell’anno scorso aveva per clienti 1.745 immigrati, e a 700 aveva accordato un finanziamento, per un totale di 10,6 milioni di euro. E ancora, mutui casa, 80 appartamenti in affitto calmierato, una casa della solidarietà per i problemi abitativi più gravi, un progetto di cooperazione internazionale con apertura di tre banche in Senegal. Tutto “per questi ragazzi”, come li ha chiamati ripetutamente il presidente della Banca, Gianfranco Bonacina. «I nuovi italiani», ha chiosato nel suo intervento Carlo Pontiggia, del S.Paolo.
Più degli altri hanno corso il rischio, più degli altri hanno assunto responsabilità, più degli altri hanno piantato la bandiera della permanenza. Si integrano, si sposano spesso con partner italiani, acquistano casa. Ma il dato più interessante è che hanno alle loro dipendenze anche lavoratori italiani. Sono ormai ben 30 mila, secondo l’indagine della Camera di commercio milanese, i nostri connazionali che hanno un capo marocchino o egiziano, cinese o senegalese. I posti di lavoro che hanno saputo creare sono in tutto 150 mila, e se ad essi si aggiungono i 139 mila 380 titolari stranieri (dati che si riferiscono al terzo trimestre del 2003), abbiamo un’allegra ventata di 300 mila impieghi.
Le “extra imprese”, come vengono chiamate le aziende create dagli immigrati, sono ormai il 4,1 per cento delle ditte individuali esistenti in Italia, e la loro crescita è addirittura tumultuosa: nel 2003 sono aumentate infatti del 16,1 per cento, contro un misero più 0,2 per cento, che rappresenta la variazione media di tutte le imprese individuali. Quanto alla nazionalità, è la marocchina quella che conduce, con il 17 per cento delle ditte individuali extracomunitarie, al secondo posto i cinesi, con l’11 per cento. Questa comunità guida nel settore manifatturiero e in quello degli alberghi e ristoranti, mentre ai marocchini spetta il primato nel commercio e agli albanesi quello delle costruzioni. Ancora: tra le regioni italiane, la più affollata di aziende extracomunitarie è, come è facile immaginare, la Lombardia (con 24 mila 700). Seguono Toscana, Emilia Romagna, Veneto e Lazio. Ma quest’ultima regione è prima per tasso di crescita, con il 20,1 per cento.
Ma non è stato facile, almeno sino ad oggi, impiantare un’attività produttiva, per questi ospiti del nostro paese. Ricevere denaro in prestito è una fatica titanica. L’istituto di credito, infatti, pretende in genere un’ampia gamma di garanzie. Beni personali e patrimoniali, un conto corrente ben alimentato, una denuncia dei redditi pesante. Specie all’inizio della sua attività, lo straniero non è in grado di rispondere a tutti questi requisiti. Per questo gli capita di venire marchiato con l’aggettivo “non bancabile”. Significa che il rubinetto del credito, per lui, non si può aprire. Ecco perché, fra gli imprenditori immigrati, è assai diffusa la forma societaria cooperativa, che consente di suddividere gli sforzi finanziari.
Tutto questo, però, fino a ieri. Le banche italiane sembrano essersi rese conto, adesso, che la clientela immigrata può essere un business, e hanno celebrato la scoperta in un convegno assai interessante, organizzato a Palazzo Altieri dalla loro associazione, l’Abi, assieme al centro di ricerche Cespe (vedi altro articolo). Fra tanti buoni propositi ed esperienze che meritavano di essere comunicate, quella che resta più impressa, forse, è di un piccolo istituto lombardo, la Cassa di credito cooperativo di Treviglio. Alla fine dell’anno scorso aveva per clienti 1.745 immigrati, e a 700 aveva accordato un finanziamento, per un totale di 10,6 milioni di euro. E ancora, mutui casa, 80 appartamenti in affitto calmierato, una casa della solidarietà per i problemi abitativi più gravi, un progetto di cooperazione internazionale con apertura di tre banche in Senegal. Tutto “per questi ragazzi”, come li ha chiamati ripetutamente il presidente della Banca, Gianfranco Bonacina. «I nuovi italiani», ha chiosato nel suo intervento Carlo Pontiggia, del S.Paolo.
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