Da La Repubblica del 01/06/2004

Il magistrato veneziano: "Disposizioni basate su un presupposto irreale, è impossibile accompagnare

Casson: "Una norma inapplicabile che sta paralizzando i tribunali"

"Ormai oltre la metà degli arresti riguarda casi di renitenza all´espulsione"
I processi funzionano così: l´imputato patteggia due mesi e resta libero in Italia

di Luca Fazzo

MILANO - «Una legge inapplicabile e fatta male». Felice Casson, sostituto procuratore della Repubblica a Venezia, non dà un giudizio ideologico della legge Bossi-Fini e del suo articolo più utilizzato, l´articolo 13. Ne dà un giudizio pratico, concreto, fatto dei giorni e delle notti trascorsi - quando è il pm di turno - a rispondere sul telefonino a poliziotti e carabinieri che gli comunicano frotte di arresti eseguiti in base a quella norma.

Dottor Casson, dati nazionali non ce ne sono. Ma pare che nelle grandi città almeno il 50 per cento degli arresti in flagranza non riguardi più ladri o spacciatori ma i colpevoli di renitenza all´espulsione. Articolo 13 della Bossi-Fini. È così anche a Venezia?
«Assolutamente sì. Anzi, il 50 per cento è una stima ottimistica. Ci sono giornate in cui sembra quasi che non si arresti per nessun altro reato. E questo crea problemi enormi a noi, ai giudici delle direttissime, alle forze dell´ordine».

Di chi è la colpa?
«Il problema è che nella legge ci sono buchi normativi incolmabili. Evidentemente quando è stata preparata e approvata non si sono affrontati i problemi concreti che questa forma di arresto avrebbe comportato. E il buco maggiore è che questa legge si basa su un presupposto irreale, che è l´accompagnamento alla frontiera dei clandestini, la loro espulsione eseguita fisicamente per mano delle forze di polizia. Ma le espulsioni non avvengono perché le forze di polizia non sono in grado di eseguirle, se a Venezia dovessero provarci mezza questura passerebbe le giornate a fare su e giù dal confine. Quindi ci si arrangia in qualche modo, ordinando allo straniero clandestino di andarsene con le sue gambe entro cinque giorni. Lui ovviamente non se ne va, e al primo controllo scatta l´arresto obbligatorio».

A quel punto cosa accade?
«Si crea una situazione paradossale. La polizia esegue l´arresto. La mattina dopo il fermato viene processato per direttissima. Nel mezzo c´è la notte: e io, come pubblico ministero, non posso mandare il fermato in carcere, perché per il suo reato non è ammesso dal codice il carcere preventivo, la custodia cautelare. Così rimane in una stanza di commissariato, dove spesso non ci sono neanche le camere di sicurezza, nelle mani degli agenti che a volte devono comprargli i panini di tasca propria. Già questa è una situazione a rischio, perché genera spesso strascichi, polemiche, denunce per percosse vere e presunte, processi per calunnia, insomma un sacco di lavoro. È una situazione conflittuale, che genera rischi sia per lo straniero che per le forze di polizia. La mattina dopo, lo straniero viene portato in aula. Qui a Venezia la prassi è che si convalida l´arresto, se possibile si fa anche il giudizio per direttissima, in genere si patteggiano un paio di mesi e lo si libera ordinandogli di lasciare il paese: e sapendo perfettamente che non obbedirà neanche stavolta».

È vero che polizia a carabinieri hanno dai loro capi l´ordine di abbondare con gli arresti, anche se sanno che non serviranno a nulla, perché in questo modo rimpinguano comunque le statistiche da mandare a Roma?
«Probabilmente sì. Ma devo dire che la tendenza a "fare statistica" non riguarda solo l´articolo 13 della Bossi-Fini ma in generale la prassi seguita dalle nostre forze dell´ordine nella lotta alla criminalità. C´è una cultura della statistica che è esiziale, a volte sembra che quello che conti sia soltanto fare più arresti possibile a prescindere sia dalla gravità del reato che dall´esito possibile della vicenda processuale. Certamente si fa meno fatica a fare cento arresti per violazione dell´articolo 13 che a fare una indagine complessa, ma io credo che la sicurezza dei cittadini sia tutelata più dalla qualità della repressione che dalla sua quantità. E anch´io, come pubblico ministero, vorrei avere più tempo per occuparmi di cose serie».

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