Da Corriere della Sera del 21/05/2004

La svolta rettilinea del Cavaliere

di Gian Antonio Stella

«Gargarismi antimilitaristi». Un anno dopo aver liquidato così le perplessità, i dubbi, le accuse di chi era contrario alla guerra, Silvio Berlusconi è tornato a parlare di Iraq alla Camera e al Senato adottando quella che il ministro Rocco Buttiglione chiama la strategia del suo cane Teo: mai tener la coda fra le gambe. E questo ha fatto: non una smentita, una concessione, un ripiego. Zero. Anzi, è andato a battagliare colpo su colpo per imporre una linea politica, diplomatica e militare che nella Prima Repubblica avrebbero potuto battezzare così: la continuità sterzante. O, se preferite, la svolta rettilinea. Lo sapeva, il capo del governo, che sarebbe stato un passaggio parlamentare difficile.

Sapeva che anche per lui, straordinario dispensatore di promesse, non sarebbe stato semplice stavolta dispensare le promesse degli altri, cioè George W. Bush, Tony Blair e Kofi Annan. Che gli avrebbero presentato il conto di una situazione ogni giorno più paurosa. Che nulla gli sarebbe stato perdonato. A partire dalla faciloneria con cui, dalle sue parti, era stato irriso alle ostilità della sinistra alla guerra nei giorni della caduta di Bagdad. Caduta che pareva dare ragione a Umberto Bossi: «Il tempo di fumarsi un buon sigaro e la guerra sarà finita». «La sinistra deve fare un impietoso esame autocritico - dichiarava trionfante Sandro Bondi -, pena la sua sparizione».

«Ancora una volta la sinistra italiana non ha capito nulla e Blair è stato molto più lungimirante», bacchettava Fabrizio Cicchitto. «Coloro che speravano che la guerra fosse lunga per poter dare corso al loro livore antiamericano sono serviti», gongolava Ignazio La Russa. «Le immagini televisive che ci mostrano le scene di giubilo della popolazione irachena hanno annichilito le sinistre sfatando tutte le loro previsioni disfattiste in una guerra lunga e sanguinosa», esultava la vice-capogruppo forzista alla Camera Isabella Bertolini. Per non dire degli sberleffi del leghista Roberto Calderoli alla prudenza di Parigi e Berlino: «Le reazioni di giubilo iracheno confermano la correttezza delle posizioni del governo sulla crisi e il Paese, con Francia e Germania con le pive nel sacco». «Le scene di gioia che stanno scorrendo davanti ai nostri occhi rendono evidente che l' intervento armato anglo-americano in Iraq pone le premesse di un nuovo ordine istituzionale mondiale».

Lo sapeva, il Cavaliere, che gli avrebbero rinfacciato tutto. E ricordato il numero di testate chimiche e di tonnellate di antrace («chi le aveva dato quelle cifre?») che lui aveva rivelato essere «con certezza» in possesso di Saddam. E rammentato per bocca di Giulio Andreotti a nome anche di Rita Levi Montalcini e di Emilio Colombo, che la nostra gratitudine verso l'America non autorizza Bush «a dare e revocare brevetti di amicizia o di canaglia» e che «non è nella nostra vocazione e nel nostro ordinamento costituzionale la condivisione di regimi di occupazione».

Così come era scontato che qualcuno, come Fassino, lo rimproverasse per la scelta di «fare festa con il Milan» nelle ore in cui Matteo Vanzan veniva ferito a morte a Nassiriya.

Ma vi pare che uno come lui, che teorizza il Milan a due punte anche nelle trasferte più complicate, pensasse solo a difendersi? Macché. Per attaccare, però, ha aspettato di essere sul terreno suo. Prima ha tirato alla Camera, tra «buuuh» e «vergognati!», tre o quattro staffilate alla sinistra («L'opposizione manca di senso di responsabilità e segue logiche aliene dallo scenario internazionale») battendo e ribattendo sulla contraddizione di chiedere per mesi un intervento dell'Onu per poi pretendere il ritiro proprio nel momento in cui si aprono degli spazi.

Poi ha aggiustato il tiro al Senato usando finalmente la parola «torture» (che a Montecitorio non aveva mai pronunciato scandalizzando non solo i duri e puri della minoranza) ed eliminando i passaggi più polemici verso l'opposizione al punto che Giuliano Amato si chiedeva: «Non ho capito perché di là se la siano presa tanto». Finché è arrivato il «suo» momento, la replica in diretta televisiva. Il rapporto senza mediazioni col «suo» pubblico. L'unica platea che per lui, a dispetto dei rimproveri di Zio Giulio che gli ricorda come sotto le bombe tedesche «la camera dei Comuni si riuniva quotidianamente e Winston Churchill andava ogni giorno a dare e ricevere coraggio», conta davvero.

E lì ha tirato fuori quello che i «suoi» volevano sentirsi dire. «Siamo alleati leali, non servi» degli Usa. Di più: «Anche noi vediamo gli errori e abbiamo fatto presente agli Usa ciò che non andava. Ad esempio a Powell abbiamo espresso il nostro dissenso sullo scioglimento dell'esercito iracheno e il licenziamento dell'amministrazione irachena». Di più ancora: «Da parte nostra non c'è stato un applauso all'intenzione americana di intervenire con un'operazione militare in Iraq. Anzi, personalmente ho avuto due lunghi colloqui con il presidente Bush una volta a Camp David, il secondo alla Casa Bianca, in cui ho cercato di portare le nostre tesi che non era conveniente un'operazione militare».

E' vero, le truppe alleate oggi sono «truppe d'occupazione, ma ciò non vuol dire che non siano liberatrici». Il coinvolgimento delle truppe di altri Paesi arabi? «Ci sono dei problemi economici, stiamo cercando di risolverli».

Le torture? Ma certo che ha tirato le orecchie al presidente americano: «I prigionieri sono stati trattati a volte come animali. Gliel'ho detto. Eravamo lì, nella sala dove c'è il ritratto di Lincoln e ho condiviso con lui lo sgomento per quegli atti».

Chiedere le dimissioni di Donald Rumsfeld? Ma per carità: «Non ci può essere ingerenza nella politica interna di un Paese amico». Tanto più, ha spiegato confondendo elezioni e sondaggi, «che il popolo americano ha votato per il 69% per la permanenza di Rumsfeld». Le stragi di civili fatte dagli israeliani? «Ho chiesto all'ambasciatore di esprimere la nostra condanna». E insomma: «Siamo lì per una missione di pace ma se avessimo pensato che non si doveva combattere contro chi attenta alla pace, avremmo mandato le crocerossine, i ragionieri, gli imbianchini...».

Conclusione, la svolta l'abbiamo voluta noi: «Abbiamo partecipato alla messa a punto di un piano che non era nei piani degli Usa fino a qualche mese fa». Sempre, s'intende, tirando diritto.

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