Da Corriere della Sera del 20/05/2004
Colpi dal tank sulla folla, strage di palestinesi
Almeno dieci morti: molti ragazzini che stavano manifestando a Gaza. Il rammarico di Israele, la condanna dell’Onu
di Elisabetta Rosaspina
GERUSALEMME - Rafah come Jenin. Due nomi che resteranno tra i peggiori ricordi della seconda Intifada: nel campo profughi di Gaza, come in quello cisgiordano due anni fa, non è il numero delle vittime, ma le circostanze della loro morte ad alimentare i sospetti di una spedizione punitiva. E’ stato un incidente, hanno insistito ieri le autorità militari israeliane mostrando con grafici e dimostrando con foto e video che i missili sparati dal tank israeliano e dagli elicotteri non erano diretti alla folla. Ma il risultato è lo stesso: dieci civili sono morti e più di 60 sono rimasti feriti, in prevalenza adolescenti, durante la manifestazione che, dal campo profughi di Rafah, marciava verso Tel Al Sultan, il quartiere sotto assedio da due giorni, a sud della Striscia di Gaza. Quasi certamente non era intenzione dei soldati colpire dozzine di adolescenti disarmati. Ed era ancor meno nell’interesse del governo israeliano che le immagini di padri palestinesi, con i bambini sanguinanti in braccio, facessero il giro del mondo. Ma ieri è accaduto. Come non era imprevedibile in un’area di una decina di chilometri quadrati popolata da 150 mila persone, in cui sono entrati decine di carri armati e migliaia di militari in assetto di guerra.
«Ci dispiace, siamo profondamente addolorati dalla perdita di vite umane - hanno ripetuto, cupi, alle telecamere, il capo di Stato Maggiore Moshè Yaalon e il ministro della Difesa Shaul Mofaz -, ma l’operazione militare a Rafah proseguirà secondo i piani». Non si saprà mai con certezza che cosa sia andato storto, in quei piani, nel primo pomeriggio di ieri, quando tremila persone si sono riversate in strada per protestare contro l’occupazione militare israeliana e la distruzione delle loro case, a Rafah. Poche ore prima, attraverso altoparlanti, i militari avevano ordinato a tutti gli uomini sopra i 16 anni del quartiere di Tel Al Sultan, a nord di Rafah, di radunarsi nei locali della scuola, per essere sottoposti ad accertamenti. Contro chiunque avesse ignorato l’ordine, o fosse stato trovato in giro armato, i militari erano autorizzati a sparare a vista: gli altoparlanti consigliavano di arrendersi in tempo, sventolando un fazzoletto bianco.
Cinque palestinesi erano già stati uccisi alle prime luci del giorno nella zona e, per l’esercito, si trattava di terroristi armati che avevano aperto il fuoco contro i loro blindati. Cinque case stavano cedendo alle ruspe e altre erano già state distrutte, inclusa quella degli assassini di Tali Hatuel, la colona uccisa con le sue quattro bambine vicino a Gush Katif, il 2 maggio scorso.
La manifestazione partita qualche ora dopo dal campo profughi ha fatto salire la tensione fra i militari che sostengono di aver visto anche uomini armati in mezzo alla folla. Gli elicotteri hanno sparato qualche missile in campo aperto, lontano dai dimostranti, nella speranza di spaventarli. La versione ufficiale informa che la marcia è proseguita e un tank ha aperto il fuoco mirando a un rudere per abbatterlo e fermare il corteo, la cui testa invece è stata colpita dalle schegge.
Già in ginocchio per le conseguenze di due giorni di incursione, l’ospedale di Rafah è stato invaso da altri corpi feriti o già inerti, mentre le poche ambulanze continuavano il loro andirivieni disperato dal luogo dell’esplosione. Il sindaco si è appellato al mondo perché fermasse la carneficina. «Faremo chiarezza, non sappiamo ancora che cosa sia successo. La zona è piena di mine messe dagli stessi palestinesi» ha preso tempo la portavoce militare, prima che l’esercito ammettesse l’incidente. Una quarantina di ambulanze israeliane sono state offerte di rinforzo a quelle palestinesi. Mentre le agenzie aggiornavano a 34 il bilancio dei morti palestinesi nei primi tre giorni dell’«Operazione Arcobaleno», come è stata chiamata in codice dall’esercito l’incursione iniziata lunedì nell’estremo lembo meridionale di Gaza, tra i campi profughi più poveri del più malandato dei territori palestinesi. Sui 130 mila abitanti di Rafah, 91 mila vivono nel campo profughi, diviso in 17 zone. Il governo israeliano è convinto che sia collegata all’Egitto, attraverso tunnel per introdurre armi ed esplosivi.
Il fuoco sulla folla ha suscitato ieri reazioni indignate in tutto il mondo e dentro Israele, fino all’aula della Knesset, il Parlamento, dove i deputati arabo- israeliani hanno urlato che il premier Sharon, il ministro della Difesa Mofaz e il capo di Stato Maggiore Yaalon sono destinati a finire davanti al tribunale internazionale per crimini di guerra. Stessa previsione è arrivata dal Cairo, per bocca del segretario della Lega araba, Amr Moussa. Nella notte il Consiglio di sicurezza Onu ha adottato una risoluzione di condanna nei confronti di Israele. Con l’astensione degli Stati Uniti, che, però, attraverso Colin Powell, esprimono i loro dubbi: l’operazione, dice il segretario di Stato, «rende più difficile» un processo di pace. Il primo ministro britannico chiede sia messa fine all’azione e alla distruzione delle case; il suo collega spagnolo Zapatero ha chiesto il cessate il fuoco.
«Ci dispiace, siamo profondamente addolorati dalla perdita di vite umane - hanno ripetuto, cupi, alle telecamere, il capo di Stato Maggiore Moshè Yaalon e il ministro della Difesa Shaul Mofaz -, ma l’operazione militare a Rafah proseguirà secondo i piani». Non si saprà mai con certezza che cosa sia andato storto, in quei piani, nel primo pomeriggio di ieri, quando tremila persone si sono riversate in strada per protestare contro l’occupazione militare israeliana e la distruzione delle loro case, a Rafah. Poche ore prima, attraverso altoparlanti, i militari avevano ordinato a tutti gli uomini sopra i 16 anni del quartiere di Tel Al Sultan, a nord di Rafah, di radunarsi nei locali della scuola, per essere sottoposti ad accertamenti. Contro chiunque avesse ignorato l’ordine, o fosse stato trovato in giro armato, i militari erano autorizzati a sparare a vista: gli altoparlanti consigliavano di arrendersi in tempo, sventolando un fazzoletto bianco.
Cinque palestinesi erano già stati uccisi alle prime luci del giorno nella zona e, per l’esercito, si trattava di terroristi armati che avevano aperto il fuoco contro i loro blindati. Cinque case stavano cedendo alle ruspe e altre erano già state distrutte, inclusa quella degli assassini di Tali Hatuel, la colona uccisa con le sue quattro bambine vicino a Gush Katif, il 2 maggio scorso.
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Già in ginocchio per le conseguenze di due giorni di incursione, l’ospedale di Rafah è stato invaso da altri corpi feriti o già inerti, mentre le poche ambulanze continuavano il loro andirivieni disperato dal luogo dell’esplosione. Il sindaco si è appellato al mondo perché fermasse la carneficina. «Faremo chiarezza, non sappiamo ancora che cosa sia successo. La zona è piena di mine messe dagli stessi palestinesi» ha preso tempo la portavoce militare, prima che l’esercito ammettesse l’incidente. Una quarantina di ambulanze israeliane sono state offerte di rinforzo a quelle palestinesi. Mentre le agenzie aggiornavano a 34 il bilancio dei morti palestinesi nei primi tre giorni dell’«Operazione Arcobaleno», come è stata chiamata in codice dall’esercito l’incursione iniziata lunedì nell’estremo lembo meridionale di Gaza, tra i campi profughi più poveri del più malandato dei territori palestinesi. Sui 130 mila abitanti di Rafah, 91 mila vivono nel campo profughi, diviso in 17 zone. Il governo israeliano è convinto che sia collegata all’Egitto, attraverso tunnel per introdurre armi ed esplosivi.
Il fuoco sulla folla ha suscitato ieri reazioni indignate in tutto il mondo e dentro Israele, fino all’aula della Knesset, il Parlamento, dove i deputati arabo- israeliani hanno urlato che il premier Sharon, il ministro della Difesa Mofaz e il capo di Stato Maggiore Yaalon sono destinati a finire davanti al tribunale internazionale per crimini di guerra. Stessa previsione è arrivata dal Cairo, per bocca del segretario della Lega araba, Amr Moussa. Nella notte il Consiglio di sicurezza Onu ha adottato una risoluzione di condanna nei confronti di Israele. Con l’astensione degli Stati Uniti, che, però, attraverso Colin Powell, esprimono i loro dubbi: l’operazione, dice il segretario di Stato, «rende più difficile» un processo di pace. Il primo ministro britannico chiede sia messa fine all’azione e alla distruzione delle case; il suo collega spagnolo Zapatero ha chiesto il cessate il fuoco.
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