Da La Repubblica del 14/05/2004

Fini e Berlusconi gli alleati belligeranti

di Massimo Giannini

Nella metà campo del Polo, la passeggiata romana del premier spagnolo è «servita» ad allargare ancora di più il fossato che separa il presidente del Consiglio dal suo vice. Per l´ennesima volta, Berlusconi ha rinnegato Fini. Il leader del secondo partito della coalizione, due giorni fa, aveva affermato che «il ritiro spagnolo dall´Iraq è stato una vittoria del terrorismo». «Ha parlato a titolo personale», ha assicurato il Cavaliere a Zapatero, e ha ripetuto poi in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Un doveroso atto di «cortesia per l´ospite» internazionale. Ma anche una pesante sconfessione pubblica per l´alleato interno. Poco importa se quest´ultimo ha messo in chiaro una convinzione diffusa dentro la Cdl, riproponendo un concetto che, all´indomani della svolta spagnola sull´Iraq, avevano già espresso con altrettanta franchezza i pasdaran di Forza Italia Bondi e Cicchitto, e i ministri Martino e Frattini. «Bossi dice quello che Berlusconi pensa», è sempre stato il criterio ermeneutico in uso dentro la coalizione, prima che il leader della Lega si ammalasse. Stavolta è stato Fini a dire quello che verosimilmente Berlusconi pensa. Ma mentre in tre anni di «avventure» condivise il Cavaliere non si è mai sognato di correggere gli spropositi urlati dal Senatur (e sono stati un´infinità), Berlusconi non ha mai perso una sola occasione per mettere in mora Fini (proprio come è avvenuto ieri).

Dalla vittoria polista del 2001, il leader di An è stato un alleato leale, ma ha incassato un colpo dietro l´altro. Ha rivendicato un ruolo, per sé e per il suo partito, nella politica economica. L´ha ottenuto sulla carta, con un «preambolo» firmato da tutti gli alleati. Ma è stato preso in giro. Le deleghe sull´economia non arrivano, e per questo batte inutilmente i pugni sul tavolo per l´Alitalia, e poi alza la posta sul fisco mettendo un ostacolo alla riforma elettoralistica annunciata da Berlusconi. Ma ha già perso sulla compagnia di bandiera, e rischia di perdere anche sulle tasse. Intanto, viene sbugiardato anche sulla politica estera. Fini paga il trasformismo del premier, che come Zelig tende a recitare tutte le parti in commedia: è blairista con Blair, chiracchiano con Chirac, zapateriano con Zapatero, anche se al dunque ha consegnato le chiavi del suo governo e della sua politica estera a un solo «padrone», l´America. Ma Fini paga soprattutto la posizione appiattita e gregaria sul suo «sdoganatore». Il leader di An sta a Berlusconi esattamente come Berlusconi sta a Bush. È un «alleato ininfluente». Di più: per il Cavaliere è forse diventato anche un «alleato belligerante». Può reggere una maggioranza del genere, di fronte al micidiale Vietnam iracheno? Può reggere un governo così, di fronte a quella che Paul Krugman ha definito la «catastrofe etica inevitabile» delle torture, che ora lambisce anche i nostri soldati nelle carceri di Nassiriya? La risposta è no. Berlusconi, come Fini e come Follini, lo sa. Ciascuno per conto proprio, aspettano la resa dei conti delle prossime elezioni europee. Più per battersi l´uno contro l´altro, che non per sconfiggere il centrosinistra. Dopo il voto del 13 giugno, i nuovi rapporti di forza detteranno la forma partitica e la sostanza politica del centrodestra. Se non nascerà una nuova maggioranza (con la Lega fuori dal gioco), sicuramente An e Udc si batteranno per far nascere un nuovo governo, reclamando più ministeri. Forse anche questo spiega la bacchettata del Cavaliere al vicepremier, sugli effetti del ritiro delle truppe spagnole. Ma è insieme pericoloso e triste che le sorti di un conflitto devastante come quello della Mesopotamia si intreccino alle miserie di un rimpasto da Transatlantico.

Nell´altra metà campo, quella dell´Ulivo, la passeggiata romana di Zapatero è servita ad imprimere un´altra accelerazione alla richiesta della sinistra radicale per un rientro immediato delle nostre truppe. Il documento della Lista unitaria contiene istanze e giudizi di una durezza inequivoca, nei confronti del governo italiano e degli Stati Uniti. La sofferenza dell´ala riformista dell´alleanza, attestata su una posizione di attesa della scadenza del 30 giugno, è evidente. I partiti del Listone, tra mille divisioni interne, hanno provato a reggere sull´ideale «linea Maginot» di una svolta possibile della crisi irachena sotto l´egida dell´Onu. Ma la totale incapacità d´azione del governo italiano presso la Ue e le Nazioni Unite, e poi la tragica autodafé americana sulle torture, hanno fatto prima smottare, poi definitivamente crollare la diga ulivista. L´«ultimatum politico» sul 20 maggio è solo una formalità. Oltre che per Bertinotti il Pdci e i Verdi, ormai anche per la Lista unitaria (come aveva preannunciato D´Alema) «il 30 giugno è già arrivato». Non si vede lo straccio di un´iniziativa di Palazzo Chigi. Non si vedono i margini per un intervento del Palazzo di Vetro. Non si vedono spiragli per un passaggio di poteri alle autorità irachene. Nel frattempo, per usare l´immagine efficace usata da Amato, gli schizzi di fango delle sevizie di Abu Ghraib macchiano la «bandiera» della democrazia americana, che tuttavia, proprio in quanto simbolo di democrazia, non si può e non si deve mai ammainare.

«Dopo le torture, quella italiana non è più una missione di pace...»: la frase di Romano Prodi, forse, suona un po´ azzardata. Arriva a valle di un confronto politico contrastato e contraddittorio per l´opposizione. Tradisce un parziale ripiegamento sulle istanze dei «pacifisti assoluti». Ma oggi, in ogni caso, il vero problema italiano non è la presunta «irresponsabilità dell´opposizione», che con le sue mozioni non può modificare il voto parlamentare. È invece la sicura «responsabilità della maggioranza», che con le sue scelte può cambiare il corso degli eventi. Anche ammesso che tornarsene a casa sia davvero «un favore fatto ai terroristi» (come dice Fini e come pensa Berlusconi), adesso tocca solo al governo spiegare a chi facciamo un favore, se continuiamo a restare in Iraq nelle condizioni attuali.

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