Da Corriere della Sera del 26/05/2004

STRATEGIA USA

La fase due di George

di Ennio Caretto

WASHINGTON - A cinque settimane dal passaggio dei poteri agli iracheni, poteri la cui ampiezza resta in discussione, e a cinque mesi dalle elezioni americane, elezioni che stando ai sondaggi ora rischia di perdere, il presidente George W. Bush ha cambiato i termini del dibattito scatenato dall’insuccesso della sua strategia e dalle torture dei detenuti in Iraq. Sulla scia del primo di sei discorsi settimanali che terrà fino al 30 giugno, discorsi fermi ma più aperti ad accordi che in passato, l'America non si chiede se sia sconfitta - non lo è, almeno non ancora - se sia destinata a continuare la guerra pressoché da sola e se debba limitare le perdite e ritirarsi. Si chiede se il piano in 5 punti tracciato da Bush per «liberare gli iracheni, non americanizzarli» come ha detto il presidente, sia quello giusto per l'Iraq e per il graduale disimpegno Usa.

Il discorso in sé che, secondo il New York Times , «Bush avrebbe dovuto pronunciare quattordici mesi fa», all'inizio del conflitto, non ha destato grandi speranze o entusiasmi. Zbigniew Brzezinski, l'ex consigliere del presidente Jimmy Carter, democratico, lamenta che poggi su analisi errate: «Il problema in Iraq non è solo il terrorismo, sono anche la divisione delle etnie e il nazionalismo antiamericano». Tony Cordesman, l'ex consulente del Dipartimento di Stato e del Pentagono, repubblicano, ammonisce che il presidente è in corsa contro il tempo: «Molto dipende dalla dinamica della politica interna irachena, che potrebbe anche portare alla guerra civile». Ma la cauta reazione di John Kerry, l'avversario elettorale di Bush - «deve passare in fretta dalle parole ai fatti» - dimostra che buona parte degli Usa dà atto al presidente del suo ripensamento.

E' presto per dire se, con il suo blitz, di cui è parte determinante la nuova risoluzione all'Onu, Bush riuscirà a riconquistare l'appoggio del Paese. I sondaggi, condotti prima del discorso, lo danno in caduta libera. Quello della Cbs vede calare la sua popolarità al 41% e quello della Gallup , la Cnn e Usa Today al 47, minimi storici, mentre il sondaggio del Washington Post e della Abc calcola il consenso per la sua amministrazione al 47%. L'Iraq è il suo tallone d'Achille: solo dal 35 al 40% degli americani ne condivide la strategia. Ma il presidente ha un margine di recupero: circa il 58% degli elettori pensa che per ora le truppe debbano restare a Bagdad e Kerry non lo distacca nei sondaggi. Il politologo Larry Sabato ritiene che la politica irachena di Bush «subirà una ulteriore evoluzione».

Molti repubblicani e democratici moderati chiedono due cose al presidente: di prospettare «sostanziali novità» nei suoi prossimi discorsi - sono mancate nel primo - e di ristabilire la sua credibilità, quelle che il Washington Post , un giornale che sinora lo ha spalleggiato, definisce «iniziative più coraggiose e dichiarazioni più oneste». Essi considerano il suo proposito di abbattere Abu Ghraib, le famigerati carceri di Saddam Hussein, non una svolta, un gesto poco più che propagandistico. Le novità, sostengono, devono consistere di una vera autonomia dell'Iraq e di una autentica collaborazione con l'Onu e con gli alleati che si opposero alla guerra. Per ripristinare la sua credibilità, inoltre, Bush dovrebbe ammettere di avere sbagliato, dicendo che Saddam Hussein possedeva armi di sterminio ed esitando a fare luce sullo scandalo delle torture.

Soltanto per i liberal, la formula «L'Iraq governerà, gli Usa rimarranno», come la riassume Usa Today , è troppo poco e troppo tardi. Carl Bernstein, il giornalista che trent'anni fa, con Bob Woodward, costrinse il presidente Nixon a dimettersi per lo scandalo Watergate, scrive che Bush è al bivio tra la trasparenza e l'inganno, come lo fu il predecessore. La ex first lady Hillary protesta che se Bush venisse rieletto «si ridurrebbero ulteriormente le nostre libertà», una denuncia del «Patriot act», le leggi speciali contro il terrorismo. Ralph Nader, il terzo uomo delle elezioni, invoca addirittura il suo impeachment o incriminazione. Sono forzature, ma sono anche la conferma che sul piano interno la guerra dell'Iraq strazia l'America e su quello internazionale mette a rischio il sostegno da essa guadagnato dopo le stragi del 2001.

Sul New York Times il columnist David Brooks parla di una «scommessa epica di Bush: la scommessa che gli iracheni si sapranno governare meglio di quanto li abbiamo governati noi», un atto di fede nella democrazia. Brooks invita gli americani e gli europei a non dimenticare ciò che è stato realizzato in Iraq, dalla destituzione di Saddam Hussein alla preparazione di libere elezioni. E' lo stesso invito del senatore John McCain, il repubblicano ribelle, eroe della guerra del Vietnam che si candidò contro Bush alle elezioni del 2000, un uomo insospettabile. Dice McCain che Bush merita il beneficio del dubbio e che l'Occidente deve ritrovare sull'Iraq la unità perduta: «Il ripensamento non può essere a senso unico».

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