Da Il Giorno del 18/05/1972

Dopo il Vietnam la guerra è un crimine

Le patenti di nobiltà non sono più credibili

di Cesare Garboli

Cinque anni fa, un giorno d´estate, decisi di partire per il Vietnam. Ricordo che la decisione fu repentina, impulsiva, di quelle che si presentano a un tratto con misteriosa e coercitiva naturalezza. E´ anche probabile che al fondo della mia decisione agissero motivi che non erano chiari: il dubbio istintivo di «andare a vedere», una falsa esigenza di testimone spregiudicato, un equivoco spirito di avventura, il bisogno di fuggire la mia civiltà e di guadagnarmi il gettone per condannarla. Fatto sta che non ebbi pace finché non atterrai a Than-Sonnut, l´aeroporto di Saigon.

Rimasi nel Vietnam abbastanza a lungo per girarne tutta la penisola. Mi spinsi in Cambogia, nella speranza di ottenere il visto per Hanoi, ricalcando la solita trafila di tutti gli inviati occidentali. Affidavo a un taccuino le mie confuse reazioni emotive. Ma, soprattutto, mi chiedevo costantemente per quali ragioni mi trovassi là, in Vietnam. Mi rivedo sdraiato sulla brandina del «center press» di Oa Nang, le mani incrociate dietro la nuca. Mi chiedevo: «Che cos´ha di diverso, la guerra in Vietnam, da tutte le altre conosciute in passato dal genere umano?».

Oggi so di poter rispondere con chiarezza. E so anche spiegarmi per quale ragione avevo fatto improvvisamente la valigia ed ero partito. Avevo bisogno di licenziare per sempre, dentro di me, una persuasione storica secolare: l´idea della guerra come fatto ineluttabile in cui si esprimono dei valori. Avevo bisogno di liquidare quest´idea attraverso un´esperienza diretta e personale, quella intellettuale non mi bastava. Appartengo a una generazione che ha fatto in tempo ad assistere agli orrori della Seconda guerra mondiale. Ma la mia educazione, la mia forma mentale sono anche quelle per le quali il vilipendio delle forze armate è un reato.

Chi parte per il Vietnam, può anche limitarsi a pensare genericamente che la guerra sia un male. Ma chi ne torna è sicuro che la guerra è un crimine. Così il popolo vietnamita ci si configura come un popolo eroico due volte. Una volta, per la sua resistenza contro un´aggressione condotta coi metodi di un terrorismo spietato e brutale. Una seconda volta, perché la sua resistenza segna una conquista storica irrevocabile. Sembra infatti che il destino abbia scelto il popolo vietnamita per chiarire in termini inequivocabili che la guerra non è una fatalità, ma semplicemente un delitto.

Un tempo, non era così. Un tempo, simili a terremoti, a cataclismi naturali, le guerre passavano sul mondo nelle stagioni adatte, seminando lutti e rovine, poi il grano ricresceva e le vittime del flagello proseguivano nel loro sconosciuto cammino di sempre. Un tempo, si poteva esser soldati con onore. A stare a tutte le letterature del passato, misurarsi col fuoco era una situazione perfino poeticamente vivibile. Oggi non è più così. Oggi la coscienza comune è portata irrevocabilmente a identificare un´azione di guerra con un´azione criminosa. Si esita a chiamare soldati i piloti dei bombardieri che sorvolano il Nord Vietnam. E se la guerra è un crimine, è abbastanza curioso pretendere che essa sia condotta secondo un codice, secondo «legalità».

Qualche giorno fa, Enzo Bettiza si chiedeva sulle pagine del «Corriere della Sera» quali metodi potrebbero istituirsi per una repressione efficace del terrorismo, ormai dilagante su scala mondiale. Bettiza ne proponeva due. Il primo, la cooperazione di tutte le polizie europee. Era un suggerimento tecnico. Il secondo suggerimento era invece ideologico, o addirittura linguistico. «Dobbiamo smettere» - scrive Bettiza - «di fare confusione fra terrorismo e guerriglia, fra azione politica e attività criminosa: non dobbiamo donare comode patenti di nobiltà a chi si serve di metodi che, almeno a parole, vengono condannate anche a Tirana e a Mosca. Guerrigliero è chi affronta il nemico in uniforme, e lo uccide, suscitando intorno al suo cadavere una guerra di popolo. Chi gioca indiscriminatamente sui cadaveri è un banale assassino e come tale dovrà essere trattato dai governi, dalle polizie e dalle opinioni europee».

Personalmente, posso andare d´accordo con Bettiza. Ma la realtà delle cose è tutt´altra. Credo che sia giusto chiamare «terrorista» il palestinese che confeziona un pacco esplosivo: ma credo sia giusto anche chiamarlo «guerrigliero». Non si tratta di aggiustare il tiro al vocabolario, si tratta di prendere atto che la guerra, qualunque guerra, se ne infischia, ormai, delle patenti di nobiltà. Se continuiamo a chiamare «guerra» il terrorismo dei bombardieri americani, perché non dovremmo chiamare «guerriglia» un´azione criminosa individuale? La tragedia che sta vivendo il mondo contemporaneo si racchiude tutta in questa atroce domanda.

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