Da Corriere della Sera del 10/05/2004
I militari preoccupati: «Manca una strategia»
Il dissenso dei generali: «Rischiamo di perdere»
di Ennio Caretto
WASHINGTON - Lo scandalo delle torture non è l'unica preoccupazione del Pentagono, lo è anche la possibilità di perdere la pace in Iraq. Un numero crescente di generali e colonnelli teme che, pur vincendo le battaglie sul campo, l'America venga sconfitta strategicamente, non riesca cioè a stabilizzare e democratizzare il Paese. E' lo «scenario Vietnam» di un'occupazione di anni, in cui la Superpotenza avrebbe il predominio militare ma non l'appoggio politico degli iracheni, con vittime da entrambe le parti. Il Washington Post cita il comandante della 82esima divisione aerotrasportata Charles Swannak e l'ex direttore della pianificazione a Bagdad Paul Hughes. Dichiara il generale Swannak: «Vinciamo sul piano tattico, perdiamo su quello strategico». Aggiunge il colonnello Hughes: «Ci vuole una politica coerente. Persi un fratello in Vietnam e mi ripromisi di prevenire un altro errore del genere. Ma, trent'anni dopo, mi accorgo che non capiamo in quale guerra ci siamo cacciati».
E' la prima volta da quando il comandante dell’esercito Eric Shinseki lasciò, oltre un anno fa, che gli architetti del conflitto iracheno, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, il sottosegretario e ideologo Paul Wolfowitz e il capo di Stato maggiore delle Forze armate Richard Myers vengono contestati pubblicamente. All'inizio del 2003, fu facile reprimere il dissenso: Shinseki venne costretto a dimettersi per avere ammonito che in Iraq non sarebbero bastati 150 mila soldati, ce ne sarebbero voluti almeno il doppio. Ma tacitare il dissenso adesso sarà più difficile. E non solo perché Rumsfeld, come rivela la rivista Time citando un suo anonimo collaboratore, «è un pulcino spaventato che ha perso fiducia in sé e nei suoi uomini in seguito allo scandalo delle torture». Ma anche perché i quadri del Pentagono sono divisi sul nuovo corso, la politica da adottare. «Un generale di punta pensa che siamo già stati sconfitti, che non si possa andare avanti così, che l'America debba ribellarsi» riferisce il Washington Post senza farne il nome.
Un suo collega osserva che Rumsfeld e compagni sono in una impasse: «Fanno buon viso a cattivo gioco, ma la situazione a Bagdad è come il morto che cammina». Il Washington Post riferisce il giudizio di un consulente delle forze speciali, Michael Wickers: «Il Pentagono dovrebbe ridurre drasticamente le truppe in Iraq, come fece in Afghanistan e ridimensionare il suo obiettivo di un Paese libero. Sarebbe meglio se la crisi fosse gestita da un ex generale di Saddam Hussein». Secondo il quotidiano, il dissenso rischia di investire la politica americana nell'intero Medio Oriente e nel Golfo Persico: i generali e i colonnelli vedrebbero nell'attuale Iraq un fattore di destabilizzazione.
Wolfowitz ha ribattuto al Washington Post che «esistono delle difficoltà, ma siamo sulla strada giusta, che è il trasferimento dei poteri e della difesa agli iracheni». E il generale John Abizaid del Comando centrale ha insistito che «siamo a nostro agio, anzi abbiamo opportunità strategiche».
E' la prima volta da quando il comandante dell’esercito Eric Shinseki lasciò, oltre un anno fa, che gli architetti del conflitto iracheno, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, il sottosegretario e ideologo Paul Wolfowitz e il capo di Stato maggiore delle Forze armate Richard Myers vengono contestati pubblicamente. All'inizio del 2003, fu facile reprimere il dissenso: Shinseki venne costretto a dimettersi per avere ammonito che in Iraq non sarebbero bastati 150 mila soldati, ce ne sarebbero voluti almeno il doppio. Ma tacitare il dissenso adesso sarà più difficile. E non solo perché Rumsfeld, come rivela la rivista Time citando un suo anonimo collaboratore, «è un pulcino spaventato che ha perso fiducia in sé e nei suoi uomini in seguito allo scandalo delle torture». Ma anche perché i quadri del Pentagono sono divisi sul nuovo corso, la politica da adottare. «Un generale di punta pensa che siamo già stati sconfitti, che non si possa andare avanti così, che l'America debba ribellarsi» riferisce il Washington Post senza farne il nome.
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