Da La Repubblica del 09/05/2004

Le mele marce di Bush

di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - LA vendetta delle vittime di Abu Ghraib su un presidente superbo che vorrebbe gloriarsi ed è invece costretto ogni giorno a umiliarsi, continua. Un altro giorno, un´altra scusa. La settimana di orrende notizie dal fronte, culminata nella più grave sconfitta propagandistica per un governo americano dalla foto della bambina vietnamita nuda consumata dal napalm, produce l´ennesima promessa di punire i «pochi colpevoli», la ripetizione dell´alibi delle "mele marce". Anche il messaggio radio del sabato mattina, che la propaganda presidenziale avrebbe voluto dedicare ai 288mila posti di lavoro recuperati in aprile, vede Bush inchiodato ad Abu Ghraib. È il segno che la fatica per circoscrivere l´infezione scaricando tutto sulle "mele", è giustamente vissuta come una battaglia per la sopravvivenza politica. «Questa - deve pur dire - è una macchia sull´onore dell´America».

Bush è prima di tutto un´immagine, è il prodotto d´una brillante opera di fiction politica costruita dal regista elettorale Karl Rove che aveva allagato di spot le tv americane in aprile per stroncare sul nascere la minaccia Kerry.

Ma gli almeno 70 milioni di dollari spesi per illustrare le virtù morali del condottiero senza macchia e per denigrare l´ondivago e grigio John F. Kerry, sono stati spazzati via in pochi minuti da quelle foto vere destinate a divenire la rappresentazione iconica indelebile di questa guerra. Per un´amministrazione che aveva evitato di associare il presidente anche alle bare dei 750 militari caduti in Iraq, la vendetta delle immagini non sarebbe potuta essere più feroce. Nessuno meglio di questo gruppo, conosce, sfrutta e dunque ora patisce, la forza delle "icone". Alza la testa il nemico mortale del moralismo messianico, l´ipocrisia.

La claque repubblicana plaude alla notizia che anche ieri Gallup dà Bush e Kerry in perfetta parità statistica, 49 per Kerry, 48 per Bush. Se, dopo l´aprile che ha visto il picco di soldati uccisi e ora la catastrofe delle sevizie su carcerati innocenti e infatti già liberati, Bush regge, deve essere anche lui avvolto, come il suo idolo Reagan, nel teflon antiaderente, si rassicurano i fedeli. E l´avversario Kerry appare, finora, incapace di mordere e di far male. Kerry non ha ancora traction come si dice nel gergo elettorale, non "prende", non riesce neppure ad approfittare della debolezza più evidente nel circolo della carovane attorno a Bush, la pretesa - o peggio, la realtà - che nessuno, alla Casa Bianca, sapesse niente fino allo scoop della Cbs e nessuno li avesse avvertiti della tempesta in arrivo.

Il paradosso apparente, che nella storia politica americana è invece la norma, dice che più il disastro iracheno aumenta, più irriducibile si fa il support di un presidente che pure annaspa alla ricerca di una via d´uscita da Bagdad e flip-flops, brancola nel giorno per giorno tra soluzioni ed esperimenti diversi. Il sostegno, come una molla schiacciata dalle cattive notizie, si comprime e si indurisce, prima di spezzarsi eventualmente sotto la pressione. Giova inizialmente al proprio candidato, come già avvenne con il Nixon del Vietnam, prima di distruggerlo se la pressione non si allenta.

Ma i segni che la pressione potrebbe diventare presto insopportabile anche per coloro che difendono Bush per difendere se stessi, si intravvedono. Sulle pagine del Weekly Standard, il settimanale neocon che è "lettura obbligatoria" alla Casa Bianca, William Kristol esprime tutto il nervosismo di questa corrente in rapida perdita di credibilità, e che non vuole restare a reggere il cerino. Kristol accusa l´amministrazione (cioè Rumsfeld) di avere imboccato ormai la strada sbagliata e invita Bush a scaricare una politica sbagliata (Rumsfeld?), e anticipare a subito, «un´elezione popolare in Iraq», perché anche «un´elezione inattendibile è meglio di un governo di tecnici nominati dall´Onu». Sottinteso: per potersene andare, cantando vittoria. Segni di crisi nervosa appaiono anche nei commentatori neocon più seri, come Charles Krauthammer, che sul Washington Post attribuisce il comportamento delle soldatesse nel carcere alla "liberazione femminile" che rende l´Occidente superiore comunque all´Islam che «invece umilia le donne».

Per ora, mentre Washington attende di vedere il "peggio", il problema del giorno è creare un barriera che separi le "mele marce" da chi le comandava, mantenendo lo show della democrazia in azione. Bush lo deve ripetere ogni giorno: Abu Ghraib è l´aberrazione di pochi, non un male sistemico, mi scuso, sorry, ma questa non è l´America. La follia di qualche soldatina strappata alla provincia non ferma il «progetto per dare democrazia all´Iraq» (Bush). Andranno forse in carcere i piccoli, per salvare i grossi, anche quella Sabrina Harman, una delle incriminate, che scrisse orgogliosa a grandi lettere e in stampatello sulla schiena di un ammucchiato: RAPEIST, stupratore, sbagliando anche l´ortografia, RAPIST.

Il guaio è che le "mele marce" parlano, come ha parlato Sabrina, per farci rabbrividire nella memoria del classico «noi ubbidivamo agli ordini», per dire che loro, gli "aguzzini", lavoravano sotto precise istruzioni di «far sentire l´inferno» a detenuti che i superiori descrivevano a loro come quelli dell´11 settembre. E che le tecniche di "ammorbidimento", impiegate nelle segrete di Saddam "riaperte sotto nuova gestione" non erano affatto aberrazioni, ma procedura ordinaria in patria. Il contractor appaltatore delle galere in Iraq, era l´ex direttore di un penitenziario nello Utah, Lane McCotter, scrive il Times di Londra. McCotter era stato licenziato nel '97 dallo stato dello Utah. La causa: sevizie sui detenuti e morti sospette. A lui un bel contratto del Pentagono, a Sabrina, la mela marcia, la corte marziale.

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