Da Corriere della Sera del 06/05/2004

Interrogatori, minacce, abusi

di Gianni Riotta

NEW YORK - Il presidente George W. Bush esprime alle tv arabe «profondo rammarico» per le sevizie dei secondini americani nel carcere Abu Ghraib, il senatore repubblicano John McCain non esclude le dimissioni del ministro Rumsfeld, i media sono ipnotizzati dallo scandalo che investe la campagna per la Casa Bianca.

Gli abusi in Iraq alzano la botola di violenti sotterranei che una democrazia non vorrebbe mai conoscere e riaprono il dossier segreto che i Paesi occidentali alle prese con il terrorismo, Francia, Italia, Germania, Israele, conoscono. Le leggi, le Convenzioni internazionali e la morale vietano l'uso della tortura contro prigionieri, comuni, politici, di guerra. Ma la coercizione tesa a prevenire attentati? Le minacce per far confessare un sospetto? L'isolamento? Le umiliazioni psicologiche? L'argomento è ripugnante e l'opinione pubblica rilutta ad affrontarlo.

Nei saggi « The dark art of interrogation » (l’arte oscura dell'interrogatorio) e « Must we torture ?» (dobbiamo torturare?) gli studiosi Mark Bowden e Bruce Hoffman scendono senza ipocrisie nel sotterraneo morale e politico della violenza usata per sorvegliare e punire. Il caso classico è quello di Jakob von Metzler, il bambino rapito a Francoforte il 27 settembre del 2002. La polizia arresta uno studente di giurisprudenza, che confessa di avere lasciato Jakob con del nastro adesivo su bocca e naso in un bosco, ma si rifiuta di dire dove. Jacob può essere vivo, il tempo stringe. La tentazione dei poliziotti è coprire di botte il colpevole, ma non possono. Il vicecapo della polizia, Wolfgang Daschner, bluffa: «Sta arrivando un agente specializzato, ti farà soffrire come non immagini: parla». Lo studente, terrorizzato, rivela il luogo del delitto.

Troppo tardi, Jacob è morto.

Gli avvocati della difesa si appellano alla «minaccia di tortura», Amnesty International accusa Daschner. Far paura è una sevizia, se è a rischio una, o come nel caso del terrorismo, più vite? Amnesty International, Human Rights Watch, l'organizzazione israeliana B'Tselem, la Coalizione cristiana contro la tortura, gruppi umanitari raccolti nel sito www.apt.ch/cinat.htm non hanno dubbi: «Mai tortura, ogni distinguo conduce a nuove violenze».

Gli Stati, soprattutto se in guerra come la Francia in Algeria, Israele davanti alle stragi negli autobus, gli Usa dopo l'11 settembre, calcolano in segreto le opzioni. Nel 1997 divenne pubblico il «Manuale Kubark», un testo segreto della Cia sulla violenza negli interrogatori (su Internet digitando www.google.it Kubark Manual). Non trovate il sego rovente versato sulle piaghe o i tratti di corda da Inquisizione, la pressione è subdola. A pagina 75 gli autori, evidentemente uomini di cultura, espongono il modello «Spinoza e il Ventriloquo». Spinoza (il riferimento è al filosofo autore di un complesso trattato di Etica ) è il poliziotto che pone all'interrogato domande di cui non può avere la risposta, troppo sofisticate per lui. Il prigioniero, via via confuso, ripete «No, no, non so» e sente crescere l'angoscia. A questo punto entra in azione Ventriloquo, che pone una domanda semplice, ma di cui l'imputato conosce la risposta. Un pilota americano, interrogato in Vietnam con questa tecnica, ricorda: «E' incredibile, ma conoscere finalmente la risposta ti rilassa, dimentichi il segreto militare e parli».

Le tecniche di «Kubark» sono in uso in Iraq, in Afghanistan e a Guantanamo. Già il 3 aprile del 2003, in prima pagina, il Corriere della Sera , unico in Italia, denunciò le morti sospette nella prigione dell'Air Force a Bagram, riportando il referto del medico legale dell'Aviazione, Elizabeth Rouse: «Omicidi, con traumi da corpo contundente». Come si è passato il confine tra la pressione psicologica del «Manuale Kubark» e le oscenità del nonnismo violento di Abu Ghraib, fino alle morti in Afghanistan? La disorganizzazione del dopoguerra e l'arroganza di certi funzionari hanno aperto la degenerazione.

Reclute ventenni, senza esperienze di penitenziari, si sono trovate a controllare centinaia di detenuti, spesso maturi ed esperti, che dovevano in fretta essere interrogati. «Da Abu Ghraib, come temo da Guantanamo, non ci arrivano informazioni utili. Tanti detenuti restano dentro perché manca un registro delle imputazioni. Interrogare è un mestiere, chi conosce segreti è un veterano, le umiliazioni non lo faranno parlare, rendendolo irriducibile e più ammirato dagli altri detenuti», si dispera un dirigente dell'antiterrorismo.

Il sotterraneo della tortura in una società democratica riproduce il caso del colonnello francese Yves Godard, X divisione paracadutisti ad Algeri nel 1957 (ritratto dal film La battaglia di Algeri di Gillo Pontercorvo). Persuaso che «le informazioni valgano oro», Godard impose ai suoi parà di ottenerle ad ogni costo dai patrioti algerini interrogati. Jacques Duquesne, un coraggioso giornalista, ha preservato le foto delle donne stuprate, anche con bottiglie rotte, degli elettrodi ai genitali, dell'acqua in gola a forza. Le confessioni arrivarono in massa, «torturiamo colpevoli per salvare innocenti» ordinava il generale Jacques Massu, ma la vittoria no. «La tortura fu strategicamente controproducente - spiega Hoffman, esperto di antiterrorismo alla Rand Corporation - la atroce brutalità unificò la popolazione algerina. Gli indifferenti, i qualunquisti, disgustati per le violenze, simpatizzarono apertamente per il Fronte di Liberazione che reclutò migliaia di nuovi quadri. In Francia l'opinione pubblica ebbe un moto di ripulsa, prese a dubitare della guerra e, a lungo, dell'esercito».

L'analisi di Hoffman è al centro dell'attenzione a Washington. La violenza aliena le popolazioni occupate e divide le coscienze degli occupanti. Le informazioni che fornisce non pareggiano il ribrezzo che scatena.

Da anni Israele, unico Paese del Medio Oriente a dover fare i conti con una libera opinione pubblica, si divide sui metodi da usare per prevenire stragi e violenze. Il centro B'Tselem ( www.btselem.org ) denuncia le «torture» nei territori occupati («anche da parte dell'Autorità palestinese») e il malessere oscuro che diffondono nella società civile.

Nessuno, come Michael Koubi, conosce il confine tra «tortura e pressione psicologica». Capo dell'ufficio inchieste allo Shin Bet, la sicurezza di Israele, Koubi ha interrogato migliaia di sospetti, terroristi e fondamentalisti. In patria è amato come un eroe o detestato come un aguzzino. La sua morale è semplice e tragica: «Raramente ho usato la forza, nella maggior parte dei casi non serve».

«Per chi ha idee, resistere al dolore è, alla lunga, sempre meno arduo. I fanatici si chiudono in se stessi», annota Bowden. La Corte Suprema di Israele ha proibito ogni violenza negli interrogatori: «Se usi la tortura in un caso estremo, perché non sempre? - chiede Jessica Montell di B'Tselem -. Se temi una strage, puoi torturare i parenti dei sospetti? Quando ci si ferma?».

La linea morale è nitida: no alla tortura. Nella realpolitik del fuoco e del sangue Hoffman dimostra che, strategicamente, la tortura non paga, e lo storico militare israeliano Martin Van Creveld, autore di Il vetro oscuro: il futuro della guerra , prova che le sevizie fanno degenerare gli eserciti occupanti in masse di bruti, corrodendo i Paesi che li sostengono. E' accaduto a Salò, in Algeria, in Vietnam a entrambi i belligeranti, in Angola al Portogallo, in Afghanistan ai russi.

Lo sdegno etico per gli abusi di Abu Ghraib scuote Washington non perché la capitale sia diventata d'improvviso un campo di scout benintenzionati. Perché tante persone serie, repubblicani e democratici, vedono nelle foto dei secondini maramaldi e nelle morti sospette di Bagram non solo una indegnità morale, ma soprattutto i sintomi di una possibile catastrofica sconfitta, da esorcizzare con un cambio di strategia.

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