Da La Repubblica del 24/04/2004

Palestina sull´orlo dell´anarchia

di Sandro Viola

PARLIAMO di caos iracheno, ed è giusto, comprensibile, visto che in Iraq l´America e l´intero Occidente stanno giocando una partita convulsa e per molti aspetti decisiva. Ma in queste ore il caos sulle frontiere tra Israele e quel che resta della Palestina, non è meno impressionante, mortifero, pericoloso. C´erano stati oltre 20 morti palestinesi in pochi giorni: qualche terrorista, certo, ma per la maggior parte ragazzi che prendevano a sassate i carri armati israeliani o bambini che giravano per casa quando la casa è stata centrata da un missile.

Ed ecco ieri sera uno sviluppo che trascina il conflitto israelopalestinese sul bordo d´ulteriori, gravissimi traumi. D´un ulteriore impazzimento.

Il primo ministro d´Israele, Ariel Sharon, ha dichiarato d´aver già avvertito George W. Bush che il suo governo si ritiene libero di agire contro Yasser Arafat: deportandolo da qualche parte in esilio, o anche, se il caso, eliminandolo fisicamente. Tre anni fa, ha detto Sharon, m´ero impegnato col presidente degli Stati Uniti di non usare alcuna violenza nei confronti del leader palestinese. Ma adesso le cose sono cambiate: riprendo la mia libertà d´azione, cosa che la settimana scorsa ho detto esplicitamente, senza nulla nascondere, a Bush.

Sharon sembra dunque intenzionato a decapitare non solo l´organizzazione integralista (e terrorista) chiamata Hamas, ma anche l´Autorità nazionale palestinese. Vale a dire il solo interlocutore con cui Israele, l´America, la Russia, gli europei e l´Onu hanno potuto sinora - sia pure con pochi esiti e molti fallimenti - tessere un negoziato, tentare una soluzione del conflitto. Dagli accordi di Oslo sino al piano di pace lanciato l´anno scorso (la road map che Bush ha sostenuto ancora l´altro giorno di considerare l´unica cornice negoziale possibile), questa era stata infatti la controparte dei governi israeliani: l´Autorità palestinese. E benché Sharon ripetesse da oltre un anno che Arafat era ormai un personaggio «irrilevante», senza più alcun ruolo effettivo, era a Ramallah, alla Muqata, la sede dell´Autorità ridotta in macerie dai cannoni israeliani, che si recavano Solana e Moratinos a parlare per gli europei, gli inviati di Putin e quelli di Kofi Annan. Alla Muqata, nelle stanze dell´Autorità nazionale palestinese, cioè da Yasser Arafat.

Così, non resta che porsi una domanda: Sharon intende davvero svuotare quelle stanze, portarne via il leader palestinese o addirittura ucciderlo, in modo che non rimanga più un solo interlocutore legittimo per un´eventuale futura trattativa? L´estrema gravità della fase che s´è aperta ieri con le dichiarazioni di Sharon, sta appunto nella difficoltà di rispondere a questa domanda. Due anni fa, quando il primo ministro israeliano minacciò per la prima volta d´andar a prendere Arafat per trascinarlo in esilio, era lecito dubitare che quelle parole si sarebbero tradotte in fatti. Troppo clamorosi sarebbero stati i contraccolpi politici, e troppo negativi per l´immagine d´Israele.

No, si trattava di minacce e basta. Ma oggi non è così. Oggi non si può essere affatto sicuri che si tratti soltanto di parole.

La perseveranza con cui Sharon ha attuato la strategia dei cosiddetti «omicidi mirati», la sua sovrana indifferenza verso gli effetti micidiali che alcuni di essi (come l´eliminazione dei due capi di Hamas, lo sceicco Yassin e Abdelaziz Rantisi) stanno avendo sugli alleati occidentali in Iraq e nell´intero mondo arabo, costringono a pensare che stavolta la minaccia sia concreta. Anzi, il preannuncio di un´azione di forza. È come se Sharon fosse ormai dominato da un solo pensiero: la sua sorpavvivenza politica. Egli deve vincere il referendum sul suo piano di ritiro da Gaza, che si terrà tra pochi giorni all´interno del Likud. Ed è quindi ben probabile che l´esilio - o la vita - di Arafat, siano il prezzo che è pronto a pagare per ottenere il consenso dell´ala più oltranzista del suo partito. Dell´immagine d´Israele, dell´America impantanata in Iraq, degli europei, dell´Onu, gli importa poco o niente.

Quel che inquieta, di fronte alla prospettiva che s´è aperta in queste ore, è la rassegnazione (se non è l´accordo) del governo americano. Un comunicato generico del Dipartimento di stato in cui si dice che Washington resta contraria ad azioni violente, è tutto quel che è giunto dall´America dopo le dichiarazioni di Sharon. E questa mancanza di fermezza, l´assenza di qualsiasi senso d´allarme, contribuiscono a rendere meno ipotetica, più reale e probabile l´eventualità d´una irruzione dei paracadutisti israeliani alla Muqata.

Su questo sfondo già tanto febbrile, si sono inserite le voci d´una lettera di dimissioni del primo ministro palestinese Abu Ala. All´indomani dell´avallo dato da Bush al piano Sharon di ritiro da Gaza (mantenendo le maggiori colonie in Cisgiordania e negando in principio il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi), Abu Ala aveva in effetti ventilato l´intenzione di dimettersi, in quanto dopo l´intesa Bush-Sharon non vedeva più alcuno spazio residuo per un negoziato. E se dovesse davvero decidere di rinunciare alla sua carica, il marasma nella regione non farebbe che aggravarsi. Gli integralisti si troverebbero in mano un´altra carta da giocare.

Forse, il solo a non agitarsi è Arafat. Un po´ perché crede nella sua buona stella, un po´ perché non può credere che i suoi avversari siano così politicamente ottusi da far precipitare la Palestina, con la sua deportazione o togliendogli la vita, in un baratro di anarchia e violenze. E forse non gli dispiacerebbe morire alla Salvador Allende tra le macerie della Muqata, durante l´operazione delle forze speciali d´Israele. Perché questa sarebbe la sua ultima possibilità d´assestare un colpo ad Ariel Sharon, il suo nemico di sempre.

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