Da Il Messaggero del 19/04/2004

Scenari/ La sfida dei nuovi media ai contatti diretti

Telelavoro, inutile guardarsi in faccia

di Roberto Vacca

«MI basta guardare in faccia il mio interlocutore per capire quel che pensa. Posso discernere se mente o se dice la verità. Gli so trasmettere fiducia. So intimorirlo. Invece mi dice poco conoscere qualcuno solo per lettera. Già parlare al telefono è meglio. I toni di voce sono espressioni dell’inconscio». Parlano così certi sedicenti psicologi: spesso sono uomini d’affari o commercianti. Sono balle residuate dalla fisiognomica: credenza che la mente e il carattere delle persone si possano analizzare dai lineamenti o dalla forma del cranio. La teoria risale a uno Pseudo Aristotele di 23 secoli fa. La riesumò Lavater alla fine del ’700 e fu riproposta nell’Ottocento dal frenologo Gall e dal criminologo Lombroso. Non ha fondamento. L’efferato gangster detto “Faccia d’angelo”, sembrava un chierichetto. L’ingegnere filantropo che portava gratis tecnologia in Vietnam prima della guerra era orribile a vedersi (The Ugly American, raccontato da E. Burdick).

E ho avuto esperienze dirette che confermano la scarsa utilità della fisiognomica e anche della trasmissione a distanza di immagini di volti umani. Qualche anno fa mi invitarono a dibattere con Nicholas Negroponte (fondatore e direttore del Medialab del Massachusetts Institute of Technology) in videoconferenza. Le nostre facce erano proiettate su un grande schermo in una sala con un migliaio di spettatori. Riuscimmo a presentare i nostri punti di vista (divergenti) in modo abbastanza efficace. Non credo, però, che gli astanti afferrassero meglio i nostri argomenti perché vedevano i nostri volti.

Un anno fa partecipai a una videoconferenza di un gruppo di lavoro con austriaci, inglesi, norvegesi, italiani, svizzeri. L’inglese degli scandinavi e degli austriaci si capiva poco. I britannici avranno avuto un buon accento, ma parlavano a voce così bassa che percepivo una parola su quattro. Alcune frasi si sentivano bene, ma la telecamera non inquadrava chi le pronunciava, così non capivo chi diceva che cosa. Presi appunti sul mio computer portatile, ma erano vaghi. Dopo l’incontro ci scambiammo le minute redatte da vari partecipanti. Erano discordi. Da allora nel gruppo ci scambiamo telefonate bilaterali e ci scambiamo e-mail circolari. E’ un sistema efficiente. Tutti sanno chi ha detto che cosa a chi e in che ordine. Il lavoro va bene.

Recentemente dovevo accordarmi col presidente di un’azienda per una serie di seminari. Ci eravamo scambiati alcune e-mail. Avevamo messo a fuoco i contenuti. Dovevamo solo definire meglio alcuni dettagli. Mi telefonò la sua segretaria per proporre che partecipassimo a una videoconferenza. In due. Io non ho una webcam collegata al computer (né intendo procurarmela). Avrei dovuto recarmi in uno studio attrezzato. Rifiutai adducendo uno strappo muscolare. Ci scambiammo ancora un paio di e-mail e di telefonate e definimmo tutto. Lui era ragionevole ed efficiente. La videoconferenza non avrebbe aggiunto niente alla nostra trattativa.

E’ curioso quanto persista la propensione a guardarsi in faccia. I videotelefoni portatili sono un altro esempio di un servizio che offre poco valore aggiunto, ma a cui si ricorre solo perché esiste e non è poi molto costoso. Vederci in faccia e anche avere risposte istantanee ci aiuta poco. Un vantaggio notevole del telelavoro è che elimina gli accessori inutili: convenevoli e grazie sociali. Per far crescere la produttività bisogna ricordare la massima di un personaggio di “Lot”: racconto di fantascienza in cui la bomba atomica colpiva la California e si salvava uno solo. Aveva previsto tutto. Aveva una station wagon equipaggiata per sopravvivere e ripeteva: «No time for niceties» (Non c’è tempo per le graziosità).

Il telelavoro ha anche svantaggi. «Quando ci sposammo, mi impegnai a vivere con te nel bene e nel male per tutta la vita, ma non per pranzo!» - protesta una moglie che si trova il marito piazzato a casa tutto il giorno. Lui non va in ufficio: telelavora. Questa è solo una battuta americana. Ma è anche un sintomo: chi lavora a casa incontra difficoltà. Viene considerato un ingombro o viene arruolato per riparare rubinetti, badare a pentole che bollono o bambini che piangono, rispondere al telefono o alla porta.

Quando cominciano a lavorare a casa alcuni impiegati dapprima si rallegrano della novità, poi percepiscono gli attriti domestici e sentono la mancanza del contatto con i colleghi. Un vice-presidente della Lotus lamentava che telelavorando trasmette bene nei due sensi dati numerici e parole: ma gli mancano le conversazioni nei corridoi, il contatto dello sguardo coi collaboratori, le storielle e i pettegolezzi scambiati senza lasciare traccia scritta. E’ naturale essere più spontanei, se sappiamo che quel che diciamo non resta registrato. Dunque taluno sta a disagio quando usa una tastiera di terminale: teme che quanto scrive possa essere diffuso dal destinatario. La possibilità esiste, però chi diffonde un messaggio ricevuto in confidenza da un collega, fa la stessa brutta figura di chi registra una telefonata su nastro e la rende pubblica. In effetti la netiquette (cioè le prescrizioni dell’etichetta da seguire quando si lavora in rete) impone di distruggere o tenere riservate le parti dei messaggi personali e confidenziali, conservando solo quelle di rilevanza professionale.

Il supporto psicologico che viene dal contatto diretto con colleghi, fornitori o clienti ha anche risvolti negativi. Si perde tanto tempo in discorsi volatili. E’ un’abitudine simile a quella di andare a prendere il caffè, secondo alcuni più diffusa negli uffici pubblici. Non abbiamo bisogno di quella bevanda in senso fisico. Cerchiamo solo una pausa, una scusa per essere un po’ meno produttivi nel nostro lavoro (il che non è nemmeno onesto). Dunque è vero: sentiamo la mancanza dei contatti umani diretti se il telelavoro ce ne priva, ma non c’è tragedia. Dovremmo imparare a non essere troppo dipendenti da abitudini radicate anche neutre. All’estremo di questa gamma ci sono le abitudini dannose come l’alcolismo o le droghe.

Io non sento il problema della mancanza del contatto de visu. Tengo molto ad alcune amicizie quasi solo telefoniche. Vedo questi amici un paio di volte l’anno, ma ci parlo al telefono o ci scambio e-mail ogni settimana. Ne traggo stimoli intellettuali, nozioni e calore umano. Il contatto diretto si può vicariare in vari modi. Il migliore è perfezionare i nostri messaggi. Sono più espressivi se, invece dello stile telegrafico, usiamo una prosa fluida e inventiva. Certo non dobbiamo essere prolissi, né pretenziosi. Quando si lavora in condizioni di emergenza, la concisione è la miglior forma di urbanità. E’ rischioso usare in modo indiscriminato gli strumenti nuovi. Meglio concentrarsi sui vantaggi e minimizzare gli inconvenienti piuttosto che piangerci sopra.

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