Da La Stampa del 18/04/2004

La retorica e la politica

di Barbara Spinelli

Fa una certa impressione ascoltare il linguaggio dei nostri politici, in questi giorni di caos iracheno. La morte eroica di Fabrizio Quattrocchi ha toccato gli animi, ma ha anche mutilato il discorso politico. Lo ha ridotto a una sequela inesauribile di parole infiammate ma scucite, colme d'entusiasmo patriottico ma senza rapporto con la realtà. Sono parole che aiutano a rivivere guerre o lotte già fatte in passato, ma che non aiutano a capire l'odierno conflitto. Sono come un manto in cui i politici s'avvolgono, sino a restarne infagottati.

Il manto di parole serve a chiudere gli occhi, non a spalancarli dolorosamente e a vedere i fatti. Serve a recitare una parte, e a spingere tutti noi a recitare una parte: non a dire i pochi vocaboli utili per assumersi responsabilità nuove, per far politiche coerenti con la tragedia che viviamo. È come se il coro d'una tragedia parlasse con enfasi solenne, ma di cose non attinenti. Come se il coro dell'Edipo non parlasse di Edipo, ma dello speciale orgoglio di Tebe di chiamarsi Tebe.

Quel che realmente viviamo non è un'offensiva contro il terrorismo classico, tipo anni di piombo. E neppure è una guerra tra Stati, perché quel che abbiamo davanti non è uno Stato ma un territorio chiuso a ogni legge e aperto invece a tutti gli arbitrii, tutti i mestieri parassiti connessi ai conflitti tra bande. I quattro sequestrati italiani, mercenari o guardie del corpo, fronteggiano il pericolo con personalissimo ardimento. Ma sono uomini che cercavano denaro e avventura senza conoscere l'ingranaggio in cui entravano: il loro arruolamento e i loro scopi non erano contrassegnati da un valore, con cui la nazione possa identificarsi. La presenza di tanti mercenari privati è segno d'una violenza degenerata. Se è guerra è diversa dalle altre, e come tale andrebbe descritta. Le politiche che saranno adottate dipendono infatti dal modo in cui essa è raccontata, e dalle caratteristiche che essa presenta.

Prima caratteristica: l'azione militare non è un atto di politica interna, paragonabile alla lotta anti-Br. Inutile quindi riesumare i vocaboli d'allora, cantilenare frasi altisonanti ma vuote sul terrorismo che ancora una volta ci colpisce, sullo Stato e i partiti che reagiranno inflessibili, compatti. Inutile instaurare tabù linguistici che legano le mani, invece di liberarle. Sembra non si possa parlare di insorti, di resistenti all'occupazione Usa, e questo ci rimanda alle Br. Perfino i reporter sono invitati a usare il linguaggio che conviene a questa visione interna, dunque immaginaria, del terrorismo internazionale. Sembra che il nemico o sia terrorista, o non sia. Se non è terrorista infatti bisogna riconoscerlo come interlocutore, e un giorno anche trattare con esso. A questo penseranno forse i governanti Usa - ecco quel che dice la retorica italiana - non noi italiani o europei. È in questo modo che politica interna ed estera si fondono, generando un unico racconto caotico e irreale.

Seconda caratteristica: questa non è una lotta globale di natura interna perché esiste un fuori, che ci percepisce come forze non d'ordine ma d'invasione. Non tutti coloro che ci percepiscono in tal modo possiamo chiamarli terroristi, se delle nostre retoriche non vogliamo restar prigionieri. Il terrorista per definizione ha un'ideologia totalitaria, e quest'ideologia è presente tra gli avversari. Ma possibile che migliaia di iracheni sciiti e sunniti abbiano quest'empito nichilista e non chiedano, anche e soprattutto, la fine d'una occupazione? Possibile che il fanatismo stesso non abbia relazioni, con quest'occupazione? Negare che all'origine del terrorismo in Iraq ci sia l'occupazione significa bendarsi gli occhi, dunque disconoscere fatti e responsabilità dei belligeranti.

Una strategia analoga è stata adottata dal governo israeliano, in Cisgiordania e Gaza. Ora, dopo decenni di cecità, Israele deve arrendersi all'evidenza e riconoscere che l'occupazione è il veleno. I governanti Usa possono imparare qualcosa, da quelle esperienze. Il terrorismo nasce dall'occupazione. È lì che cominciò l'odio d'Israele, e che oggi s'accende come fiamma planetaria l'odio dell'America e dei suoi alleati. Gli sciiti che sono la maggioranza in Iraq e non pochi sunniti sono contenti di esser stati liberati da Saddam. Ma adesso il loro nemico è quello che chiamano invasore, e la battaglia unisce spesso moderati e estremisti. Il conflitto che osserviamo in Iraq è un'intifada contro i belligeranti occidentali, e i fieri toni patriottici che esaltano la nostra missione sono fuori luogo in simili circostanze.

Terza caratteristica: questa non è una guerra fra Stati, e la memoria di come è cominciata non è inutile. È una guerra contro uno Stato che non è più tale, contro un failed state: lo stesso failed state che Bush considerò, a suo tempo, il primo nutrimento del terrorismo globale. Per questo non basta dire che il passato è passato e solo il futuro pesa; che è inutile stabilire se la guerra fu un errore, visto che comunque i cocci son rotti e bisogna ripararli in loco. Giudicare il passato serve invece, per edificare il futuro. Serve sapere che questa guerra in Iraq cominciò nella menzogna sulle armi di distruzione di massa e sulle colpe dell'11 settembre. Serve sapere che iniziò come guerra contro un terrorismo che non si identificava con il volto esecrabile di Saddam, e che ha finito col creare quello stesso terrorismo senza volto, figlio dell'anarchia e dell'anomia statuale, che si voleva combattere. È adesso che la guerra in Iraq diventa veramente antiterrorista, e asimmetrica: combattuta tra Stati e bande di soldati di ventura. Per uscirne occorrerà che si crei la parvenza d'uno Stato con cui negoziare la tregua, e anche questo va sin d'ora preparato.

Questo significa che prima o poi toccherà fare vera politica estera, in luogo d'una retorica ricopiata dagli anni di piombo. Toccherà negoziare con sciiti, sunniti, curdi, perché il 30 giugno si giunga a qualcosa che somigli a un governo rappresentativo. Toccherà ottenere la garanzia di Stati arabi musulmani. Toccherà cercare interlocutori anche in Palestina, perché la guerra asimmetrica abbia fine in Medio Oriente oltre che in Iraq, e oltrepassi l'intesa esclusiva Bush-Sharon.

E qui veniamo all'ultima caratteristica: questa guerra, che Bush iniziò estromettendo sprezzantemente l'Onu, ha ora più che mai bisogno che l'Onu ritorni. Bush e Blair adesso invocano la sua «forza centrale». È una sconfessione di quel che sinora è stato fatto. È uno spazio aperto alla riscoperta della politica multilaterale, visto che solo con l'Onu sciiti e sunniti son disposti a parlare.

È ora, forse, che le parole dei politici s'adeguino a questa guerra che con tanta fatica si tenta d'aggiustare, di correggere, e di concludere senza troppe perdite.

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