Da Corriere della Sera del 11/04/2004

Soldati di ventura

La tentazione di guadagnare anche mille dollari al giorno

di Gianluca Di Feo

Non chiamateli «mercenari», perché non si riconoscono nella vecchia immagine dei guerrieri senza patria. Ma non vogliono nemmeno sentirsi definire «guardie private», perché il termine sa troppo della routine di metronotte. Loro dicono di essere «operatori della sicurezza» o semplicemente «professionisti». Perché la riservatezza è la loro prima regola, ed è difficilissimo farli parlare del loro lavoro. I più famosi sono reduci britannici, poi vengono gli americani - ma solo quelli che possono vantare un curriculum nelle forze speciali - e da pochi anni sono ricomparsi anche gli italiani. I nostri militari si sono fatti apprezzare nei Balcani, in Afghanistan e in Iraq per la capacità di usare - come ha detto l’ammiraglio Di Paola - «buon senso e fermezza»: proprio le doti più richieste dalle grandi corporazioni della sicurezza. Al resto ha pensato la legge del mercato. C’è una domanda crescente in tutto il mondo di «corporate warriors»: un business stimato nel 2003 in 100 miliardi di euro l’anno, ma che è destinato a crescere vertiginosamente. Dall’altra ci sono i volontari del nostro esercito, ai quali non viene nemmeno garantito un futuro nelle forze dell’ordine: l’unico modo per non cadere nella povertà dello stipendio da 1300 euro sono le missioni di pace all’estero. E se bisogna stare lontani da casa, tanto vale allora rinunciare alle stellette e guadagnare di più. Perché è lo stipendio la principale attrattiva di questi «soldati di ventura». A un parà della Folgore ogni mese di trasferta in Kosovo frutta circa duemila euro: nello stesso Paese un ingaggio con i privati vale almeno il doppio, mentre in Iraq o Afghanistan si può arrivare a una somma cinque volte superiore. I primi a fiutare le prospettive di arruolare italiani pare siano stati quelli della DynCorp - forse la più grande e la più criticata compagnia del settore - che li hanno visti all’opera in Bosnia. Hanno fatto offerte molto discrete soprattutto ai giovani marescialli dei carabinieri. Il problema però è che garantiscono solo contratti a breve termine: 6 mesi, un anno al massimo. Dopo si va dove c’è lavoro: Colombia, Algeria, Filippine. Un’incertezza che non ha convinto molti, soprattutto tra i sottufficiali dell’Arma che possono comunque contare su una prospettiva in patria. Diverso il discorso invece per i baschi amaranto della Folgore, per i marò di San Marco e per altri specialisti dai destini meno concreti. Diverso soprattutto ora che con la crisi in Iraq il «soldo» offerto dai privati sta lievitando: si arriva fino a 1000 dollari al giorno per le attività più rischiose, come la scorta ai convogli di benzina.

Certo, anche nei nostri reparti ci sono anche delle teste calde: quelli che sognano l’azione a tutti costi e le battaglie nella jungla. Lo stesso spirito che fino agli anni Sessanta aveva spinto diversi reduci di Salò o delle Brigate Garibaldi a rimpinguare i ranghi dei mercenari in Katanga e in Rhodesia o della Legione straniera in Algeria e Indocina. Ma sono l’eccezione. Poco più di un anno fa, la Procura di Verona ha registrato molti di questi fermenti in un’inchiesta su un presunto tentativo di golpe alle Comore. C’erano alcuni «professionisti» dell’esercito che faticavano ad adattarsi alla routine della vita di caserma. «Il problema è che noi adesso non abbiamo più voglia di sottostare alle regole precise... - raccontavano nelle intercettazioni -. Ci vorrebbe qualcosa di diverso, di autonomo...». Un altro aggiungeva: «Laggiù andavi e potevi sparare con tutte le armi». E un altro ancora si diceva pronto a tutto pur di combattere con Bob Renard, un vecchio centurione francese: «Se mi chiama metto la mimetica e parto...».

Personaggi del genere non sarebbero piaciuti ai selezionatori delle compagnie britanniche o statunitensi. Cercano gente più affidabile. Al primo posto, i britannici e le loro ex truppe coloniali - i celebri gurkha nepalesi - dalla fedeltà leggendaria. Per questo tendono a scartare i russi, mentre non disdegnano serbi come quel cecchino che in Kosovo era pronto a sparare sugli americani e ora viene pagato per proteggerli a Bagdad. Ci sono poi australiani, canadesi, croati, francesi. Gli israeliani invece agiscono con loro società, fortissime sotto i Tropici. Africani pochi, scarsi anche i sudamericani. Insomma, non si cerca gente dal grilletto facile.

Ma il mercato si sta allargando troppo velocemente. E la domanda comincia a superare l’offerta. Creando scenari inquietanti. La trasformazione da mercenari a «operatori della sicurezza» risale infatti alla metà degli anni Novanta. L’amministrazione Clinton per motivi di costo cominciò a delegare alcune operazioni ai privati. Era la prima applicazione bellica dell’ outsourcing : venne appaltata alla DynCorp la campagna contro i narcos in Colombia e l’attività in Bosnia. Il primo scandalo nei Balcani - con l’accusa di gestire giri di prostitute minorenni - e i primi caduti in azione in Sudamerica non frenarono l’ascesa dei nuovi signori della guerra. Poi con Bush è arrivato il boom: la Casa Bianca ha delegato persino la sicurezza delle sedi diplomatiche. Alcuni colossi sono spuntati dal nulla, come la Blackwater che protegge il proconsole Paul Bremer.

Proprio la Blackwater è stata la protagonista dei due episodi che hanno segnato il salto di qualità. E’ l’azienda che aveva ingaggiato i quattro americani fatti a pezzi dalla folla a Falluja. Ed è l’azienda dei commandos «privati» che al fianco dei marines hanno difeso la sede del governo a Najaf, venendo riforniti dagli elicotteri della società: la prima vera battaglia vinta da una milizia in affitto. «E’ un fenomeno completamente nuovo - ha commentato Peter W. Singer, autore del saggio più celebre sulla materia - guerrieri privati impegnati in quelle attività di prima linea che una volta toccavano ai militari». E’ come se si tornasse a prima della Rivoluzione francese, quando gli eserciti erano composti da soldati di mestiere. E molti evocano i capitani di ventura del Rinascimento, talmente potenti da costruire dinastie. Già oggi Washington non potrebbe fare a meno dell’«armata in affitto»: circa 20 mila «uomini d’arme» sono impegnati nei contratti assegnati dal governo, in Iraq c’è un «pretoriano» ogni 10 soldati regolari. E uno studio ipotizza di sostituire tutti i caschi blu dell’Onu con un’armata a noleggio. «Vorrei avere il più grande e più qualificato esercito privato del mondo», ha dichiarato al New York Times Gary Jackson, presidente della Blackwater. Sotto le sue bandiere oggi ci sono 450 specialisti assunti in pianta stabile, che nel corso di cinque anni hanno addestrato quasi 50 mila fanti. Gli ultimi? Ex commandos cileni e carapintadas argentini.

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