Da La Repubblica del 08/04/2004

La guerra delle fazioni

La vera battaglia è in corso all´interno dell´Islam. E in questo conflitto senza quartiere tutti i simboli sono usati: non esiste più alcun santuario

di Gilles Kepel

L´IRAQ è sommerso da un´ondata di violenza che sta schiacciando le forze americane e gli alleati tra incudine e martello. Oltre all´opposizione dei sunniti - composta da orfani del regime o guerriglieri venuti dall´esterno - gli statunitensi e le truppe italiane, spagnole, polacche e degli altri contingenti devono confrontarsi con la rivolta dei rivoluzionari sciiti infiammati dal giovane imam Moqtada Al Sadr. Questa violenza generalizzata è legata all´avvicinamento della data del 30 giugno, quando dovrebbe partire il governo autonomo iracheno. In questa prospettiva ogni fazione cerca di acquisire più potere e spazio possibile prima che i rapporti di forza siano istituzionalizzati e dunque congelati nel "nuovo Iraq".

Di fronte a questa scadenza la violenza non conosce più limiti, rendendo difficile la posizione degli americani e ancor più degli alleati che sono più che mai ostaggi di una guerra alla quale non possono partecipare politicamente poiché non gli viene chiesto alcun parere e assistono a giochi politici che non li coinvolgono direttamente.

In questo conflitto senza quartiere tutti i simboli sono usati, e non esiste più alcun santuario. All´inizio della settimana le milizie di Al Sadr hanno invaso i luoghi santi sciiti armi in pugno per scacciare i seguaci dell´ayatollah Sistani, la massima autorità sciita dell´Iraq, il quale cerca un compromesso politico con gli americani. E lo stesso Al Sadr, prima di spostarsi nel feudo di Najaf, s´era rifugiato in una moschea di Kufa, esercitando così un ricatto sugli americani: se avessero voluto catturarlo le truppe Usa avrebbero dovuto distruggere la moschea; ma avrebbero così corso il rischio di un sollevamento generale degli sciiti che avrebbe spazzato via ogni residua speranza d´intesa con la comunità più numerosa dell´Iraq e impedito a Sistani di conservare la posizione di neutralità nei confronti degli occidentali.

Anche a Falluja un gruppo di irredentisti sunniti sembra aver scelto di utilizzare il simbolo della moschea come chiave della loro battaglia: rifugiatisi in un tempio della città, dove i nostalgici di Saddam sono numerosi, sono stati attaccati dalle forze statunitensi. Benché l´esatto svolgimento dei fatti resti incerto, è evidente l´uso del tempio come simbolo di resistenza per mobilitare l´intero Islam contro l´Occidente. In questi giorni abbiamo infatti visto le tv del mondo arabo insistere sulle vittime degli attacchi delle truppe della coalizione occidentale e presentare il conflitto in Iraq come una guerra tra Occidente e Islam.

Ma in realtà questo non è che propaganda: il vero conflitto è in corso all´interno dell´Islam stesso e ha per obiettivo di assicurare a una fazione l´egemonia rispetto all´altra, appoggiandosi anche ai simboli religiosi in una spirale distruttiva. Dal momento in cui gli sciiti brandiscono l´Islam contro gli occidentali i sunniti devono mirare ancora più in alto, in un´escalation di violenza.

Di fronte a questo rapidissimo evolversi degli eventi gli Usa sono costretti a trovare degli alleati che fermino il caos iracheno e che li aiutino a sottrarsi alla spirale innescata. Tanto più che l´inesorabile avvicinarsi alle elezioni presidenziali rende ancor più fragile Bush al quale gli elettori rischiano di far pagare le centinaia di morti americani in un conflitto che l´America profonda ormai non capisce più.

Ecco perciò evidenti i limiti dell´unilateralismo imposto dal team di Bush e dai neoconservatori. Gli Usa saranno costretti a reintrodurre nel gioco iracheno i paesi dell´area che hanno maggior influenza sui sunniti (l´Arabia Saudita in primis) e sugli sciiti (ovvero l´Iran).

Già negli anni Venti l´occupazione britannica in Iraq aveva dovuto affrontare una violenta rivolta sciita e Londra era riuscita a disimpegnarsi non grazie a una pur sanguinosa repressione, bensì attraverso compromessi politici raggiunti con i dignitari religiosi sunniti delle principali tribù. Oggi l´America per uscire dal ginepraio iracheno ha bisogno - proprio come i britannici 80 anni fa - di interlocutori affidabili che rappresentino le forze positive del paese.

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