Da Il Messaggero del 06/04/2004

Il vero errore, saldare tutto il fronte nemico

di Marcella Emiliani

CASOMAI non ce ne fossimo accorti, in Iraq si è aperto un nuovo fronte, se possibile ancor più pericoloso di quello che alimenta la guerriglia del cosiddetto "triangolo sunnita" attorno a Bagdad. Come molti temevano è arrivata cioè la spaccatura tra gli sciiti che costituiscono la maggioranza della popolazione. Fino ad oggi, erano stati tenuti calmi solo dal carisma della loro guida spirituale, l'ayatollah al-Sistani, nonché dal calcolo politico in base al quale come ragiona lo stesso al-Sistani se democrazia in Iraq ci dovrà essere, agli sciiti il potere verrà automaticamente garantito dalla forza dei loro numeri. Cruciale in tutto questo è il fattore tempo: vista la situazione precaria dal punto di vista della sicurezza e della fatica di vivere, con l'economia ancora in gran parte bloccata, prima si arriva alle elezioni e meglio è; prima se ne vanno gli americani e i loro alleati e meglio è.

Il governatore pro-tempore voluto da Bush a Bagdad, Paul Bremer, queste cose le sa meglio di altri e in vista della consegna dei poteri al governo provvisorio, prevista per il 30 giugno, aveva già profetizzato un'escalation della violenza man mano che ci si fosse avvicinati alla data fatidica. E infatti. La causa scatenante che domenica scorsa ha portato alla vera e propria rivolta dei seguaci in armi di Muqtada al-Sadr (lo Jaish al-Mahdi, l'Esercito del Salvatore) a Bassora e a Sadr City (bubbone periferico di Bagdad) pare sia stata l'arresto del braccio destro dello stesso al-Sadr, Mustafa al-Yacubi, ma il motivo è più profondo e complesso. Col 30 giugno, tutte le milizie presenti sul territorio iracheno in teoria dovrebbero consegnare le armi al governo ad interim: difficilmente questo avverrà, ma chi rifiuterà di disarmare i propri lanzichenecchi a quel punto andrà allo scontro frontale con altri iracheni, si caricherà della non lieve responsabilità di alimentare una guerra civile e intra-musulmana.

Molto meglio allora scagliarsi contro "gli occupanti" americani e inglesi (più i loro alleati) finché ufficialmente il potere è in mano loro, cioè di stranieri. Dietro Muqtada al-Sadr ci sono le masse sciite delle periferie più degradate e nella loro rivolta, oltre all'antiamericanismo urlato, c'è una rabbia vecchia di decenni, fatta di emarginazione e miseria, perché lontani dalle campagne che hanno abbandonato o sono stati costretti ad abbandonare dalle epurazioni di Saddam non godono più neanche della solidarietà di base garantita dai circuiti tribali e dai potenti sceicchi che, unici, in Iraq hanno il controllo del territorio.

Quello a cui abbiamo assistito domenica e ieri, con l'occupazione del palazzo del governatore a Bagdad, non c'entra nulla con la strategia terroristica perseguita nel "triangolo sunnita" a suon di agguati e autobombe, strategia peraltro portata avanti anche dall'estremismo radicale islamico: somiglia piuttosto a certe rivolte anti-coloniali, che si scagliavano non solo contro la potenza "occupante", ma anche contro quanti accettavano le regole di quel colonialismo, in questo caso il governo ad interim voluto dagli americani, ma anche contro quel al-Sistani che, pur mordendo il freno, vuole arrivare per una via pacifica e negoziata alla costruzione di uno Stato islamico. E, si può cassandreggiare, per ingrossare le file del proprio Esercito del Salvatore, Muqtada al-Sadr conta sicuramente sulla durezza della repressione ai danni dei suoi seguaci che Paul Bremer ha già decretato bollando lo stesso al-Sadr come "fuorilegge". Detto in altre parole al-Sadr vuole al tempo stesso indebolire gli Usa e il grande ayatollah al-Sistani per rendere ingovernabile l'Iraq, mandare all'aria la transizione e imporre, a furor di popolo, il "suo" Stato islamico. Forse non ne avrà la forza, ma intanto come nel Libano degli anni 70 o in Afghanistan ancor oggi diventerà l'ennesimo signore della guerra.

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