Da Corriere della Sera del 06/04/2004

Washington-Bagdad

Il sentiero di George W. tra le fazioni in lotta

di Gianni Riotta

NEW YORK - La peggiore notizia dall’Iraq non è l’agguato di Malhama, con la macabra violazione dei cadaveri a uso delle telecamere, e neppure la rivolta della fazione sciita legata all’ayatollah Moqtada Al Sadr. La notizia più preoccupante è la chiusura del coraggioso giornale Iraq Today, fondato dal giovane iracheno Hassan Fattah, cresciuto in America e tornato nel suo Paese dopo la caduta di Saddam. Già fermato dalla Military Police per le critiche ruvide alla coalizione alleata, Fattah è stato ora costretto a chiudere battenti e nascondersi, per le minacce del terrorismo contro lui e i suoi meravigliosi cronisti. Che il vecchio Iraq avrebbe alimentato a lungo una sorda guerriglia era prevedibile. Ma se il nuovo Iraq, così vivace, ripiega davanti alla violenza, la pace si allontana. Le forze di coalizione sono sulla difensiva, militarmente e politicamente. L'imboscata dei pressi di Falluja ha segnalato la volontà della minoranza di sunniti legati al Baath di Saddam Hussein di non accettare compromessi con le autorità civili. I cittadini sono stati avvisati di restare in casa, il traffico sgombrato, gli attivisti poi (non «la folla ebbra di sangue» delle cronache salgariane...) hanno mutilato i poveri corpi per diffondere attraverso una troupe Aptn la minaccia «morte ai mercenari e ai collaborazionisti».

Il 30 giugno è previsto il passaggio di poteri tra gli americani e gli iracheni. I sunniti temono di restare schiacciati nella tenaglia tra i curdi, che vivono nelle loro zone autonome, e gli sciiti, il 60% dei circa 25 milioni di abitanti. Ecco che i baathisti, se in combutta o no con i fondamentalisti è difficile dire, provocano le autorità per imporre la repressione che alieni la comunità fedele a Saddam. Pronta la replica degli sciiti. Il Grande Ayatollah Al Sistani raccomanda calma, e tesse il suo filo con il messo dell'Onu Lakhdar Brahimi. Dietro le stragi e il sangue, però, c'è un preciso disegno politico, la strategia del caos, non «la piazza violenta» e se Al Sistani attende, la sua nemesi, il focoso ayatollah trentenne Moqtada Al Sadr, getta nella mischia la milizia Mahdi, per candidarsi come solo portavoce della confessione. Falluja e la rivolta di Sadr City, il ghetto di Bagdad, sono manovre per arrivare al 30 giugno in posizione di forza.

Gli americani dovrebbero rispondere a caldo, ma il loro margine è stretto. Il presidente George W. Bush è testa a testa con lo sfidante democratico John Kerry in un'aspra campagna elettorale. La costituzione irachena e un governo autonomo sarebbero biglietti da visita rilucenti per la Casa Bianca numero 2; cadaveri fatti a pezzi e i carri armati a Sadr City no. Che fare? Ieri il generale John Abizaid, detto l'«Arabo pazzo», il comandante dello scacchiere mediorientale, ha per la prima volta ammesso che forse occorrono più dei 150.000 soldati di stanza in Iraq. Anatema per il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, teorico con Andrew Marshall dell'intervento «leggero». Per mesi, l'ex capo di stato maggiore dell'esercito, generale Shinseki, aveva implorato di arrivare in Iraq con 400.000 fanti, e s'era visto imporre, per ripicca, la pensione anticipata. Ora i soldati servono, se in Paesi pacifici si calcolano due poliziotti ogni 1000 abitanti e in Irlanda del Nord se ne mobilitavano 20 per 1000 negli anni '70. In Iraq l'equazione richiederebbe mezzo milione di uomini e, visto che la polizia locale è imbelle, Shinseki sembra vendicato dalla realtà. Può Rumsfeld ammettere l'errore, senza alienare gli elettori?

In queste ore Falluja è circondata. In periferia sorgono campi prigionieri per i militanti che verranno rastrellati e campi di accoglienza per i civili che scapperanno davanti agli scontri. Ma un combattimento casa per casa, un anno dopo la guerra, non serve, né militarmente, né per ottenere consenso in Iraq, malgrado il colonnello dei marines Coleman dica grintoso: «Spezzeremo le ossa ai ribelli». «Non ci sono opzioni militari valide» riconosce Michael Clarke, docente di strategia al Kings' College di Londra. Vero: la sola scelta del comando americano è una guerra di posizione, assorbire le perdite, colpire il nemico dove può, ma la vera alternativa è contenuta nel manuale «La guerra di guerriglia» del Che Guevara (Baldini) e nel «Manuale delle guerre a bassa intensità» del corpo dei marines. Impossibile radere al suolo Falluja come il dittatore siriano Assad fece con la città di Hama, sterminando 40.000 musulmani nell'indifferenza del mondo. Impossibile arrestare tutti i rivoltosi, perfino difficile applicare il mandato di cattura formale contro Al Sadr. Sola strada, spiegano i testi della guerriglia e della controguerriglia, che la popolazione non nasconda più i capi Baath, Al Qaeda e i miliziani di Moqtada Al Sadr, ma li denunci o almeno convinca a più miti ragioni. La strage di Malhama è stata preparata sotto gli occhi di centinaia di persone: finché non parleranno gli americani sono in difesa e i ribelli all'attacco.

Per convincerli, occorre che torni a fiorire l'Iraq civile di cui il giornale di Fattah è stato un germoglio. A Falluja vige il codice delle tribù del deserto, i capi non si schierano per ideologia (tanti ufficiali Usa hanno nello zaino i «Sette pilastri della saggezza» di Lawrence d'Arabia) ma per stima di forza. Consegneranno agli alleati i terroristi quando li riterranno accerchiati. Il dibattito americano, con il bravo senatore Joe Biden che invoca la Nato, l'Onu e l'Europa, è per ora appassionato ma accademico, chi ha voglia di infilarsi in un inferno che prevede una lunga trincea e una difficile battaglia per il consenso? L'audizione della consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice, giovedì davanti alla Commissione d'inchiesta sull'11 settembre, e la campagna elettorale, paralizzano l'iniziativa della Casa Bianca. In attesa di un cambio di fronte che permetta ai tanti liberi Fattah di rialzare la voce, la guerra globale continua sul fronte iracheno e con il terrorismo, cieca e violenta.

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