Da La Repubblica del 06/04/2004

La storia

Najaf, città santa sciita ferita dalla guerra civile

Dopo una lunga decadenza è ridiventata il centro religioso per 170 milioni di fedeli

di Bernardo Valli

SULLA strada per Najaf si incontrano tutte le facce dell´universo sciita. Dove c´erano i giganteschi, ossessivi ritratti di Saddam Hussein, il raìs destituito e carcerato, ci sono adesso i volti idealizzati di Ali, cugino e genero del Profeta, e di suo figlio Hussein, avuto da Fatima, figlia del Profeta. Sono volti che esprimono dolcezza, la dolcezza barbuta di un Gesù guerriero, che a volte impugna la spada, o è in compagnia di un leone. I pellegrini diretti a Najaf si inebriano alla vista di quelle immagini che spuntano puntuali sul ciglio della strada, come altrove i cartelli pubblicitari.

Nell´attesa di entrare nel grande santuario di Ali, uomini e donne provenienti da Bagdad e dalle più lontane province irachene del Sud (ma anche dall´Iran, dall´Azerbaigian, dal Bahrein...) affondano i loro sguardi nelle sublimate espressioni dei fondatori della grande setta sciita; e assaporano la riacquistata libertà, dopo decenni di tirannia iconoclasta. La quale consentiva una sola eccezione pubblica: l´immagine del raìs, blasfemo e usurpatore, che si attribuiva, quando gli faceva comodo, un posto tra i discendenti di Ali. Dunque del Profeta.

Più Najaf si avvicina e più l´esaltazione è palpabile: ma è un fervore composto, trattenuto, forse rispettoso dei morti che alcuni pellegrini portano con sé, avvolti in un lenzuolo, a volte anche nel ghiaccio, sul sedile posteriore o nel furgone trasformato in carro funebre, per poterli inumare a Najaf, dopo averli lavati all´obitorio, e condotti nel santuario di Ali per un giro purificatore. Ci sono più tombe che case a Najaf. Il cimitero è una metropoli. È importante per uno sciita essere sepolto dove è sepolto Ali.

Bisogna assistere alla rinascita degli sciiti iracheni. A quella che per loro è una liberazione dopo secoli di sottomissione ai sunniti. Soltanto così si riesce a capire l´intensità dei loro sentimenti.

Se ce la fai a immedesimarti nell´irrefrenabile desiderio di esprimere quel che è rimasto tanto a lungo compresso nei cuori e nelle menti, ti rendi conto di come possa apparire insopportabile una presenza straniera che vuole imporre principi di un´altra tradizione. Proprio quando hai appena recuperato la tua.

Quella presenza, che ti ha da poco liberato, diventa un´usurpazione. I messaggi lanciati agli americani, in questo senso, sono abbastanza chiari.

Con loro, con gli americani, lavora un bravo manager italiano, Lino Cardarelli, il quale ha una larga, rara esperienza internazionale. Ha studiato a Harvard ed è stato tra l´altro un dirigente di Montedison. Cardarelli occupa un posto di rilievo nel Program Management Office, il cui compito è in sostanza di costruire un nuovo Iraq. Moderno ed efficiente. Dopo avere ascoltato la sua generosa illustrazione del progetto, basato sulle ricche esperienze anglo-sassoni, mi sono chiesto se il modello al quale si sta prodigando si applicherà al Paese che ho sotto gli occhi. Alla sua società, alle sue tradizioni, ai suoi fermenti. Il rischio di un rigetto è già evidente.

Dopo una lunga decadenza, Najaf è ridiventata il centro religioso più importante per i centosettanta milioni di sciiti sparsi nel mondo, e per i quindici milioni che vivono in Iraq. Qom, in Iran, che l´aveva esautorata come cuore della rivoluzione khomeinista, è ritornata nell´ombra. È Najaf che adesso sfida Washington. Il presidente della superpotenza è costretto a seguire, con apprensione, quel che accade attorno al sacrario di Ali. Verso il quale convergono passioni religiose e politiche. Là fermenta una guerra civile. Mercoledì scorso vi ero diretto anch´io, quando un convoglio di marines ha bloccato il traffico. Era stata trovata una bomba. Per cinque ore i marines, ginocchio a terra, hanno puntato le carabine contro di noi, asserragliati nelle automobili, costrette ad abbandonare la strada asfaltata e a sostare su piste polverose o in aperta campagna. Chi trasportava cadaveri cercava di proteggersi dal sole. In quelle cinque ore gli sciiti diretti a Najaf hanno incrociato i loro sguardi carichi d´odio con quelli dei marines che, diffidenti, li tenevano sotto tiro con mitra e carabine.

Lungo la strada per Najaf, ti imbatti anche nei volti dei capi religiosi che in questo momento rappresentano le varie correnti sciite: da quelle radicali, con tutte le varianti immaginabili e possibili, a quelle moderate, dette altrimenti "quietiste", anch´esse numerose. Il ritratto più frequente è quello di Mohammed Ali Husseini Al-Sistani. Il quale è molte cose: un santo, un teologo, un saggio, un´autorità e un enigma. Non è soltanto un grande ayatollah. È un marja, che per gli sciiti è qualcosa di simile al papa cattolico, ma con in meno l´unicità. Nel senso che di marja ce ne sono più di un paio. Anche lui, in molti campi, è infallibile. È un interprete della parola divina, è una fonte di imitazione, è un esempio di intelligenza e di sapere, dalla filosofia alla matematica. L´ayatollah Khomeini, che visse per anni in esilio a Najaf, non fu mai un marja.

Al-Sistani è un quietista. Al contrario di Khomeini non pensa che i religiosi debbano esercitare direttamente il potere politico. Non predica la separazione tra Stato e moschea. Ma non vuole una repubblica islamica, tipo quella di Teheran. Teme che la politica inquini la religione. Non viceversa.

Questo non significa che rinunci a farsi sentire. Sul progetto di costituzione, preparato da persone scelte dagli americani (persone alle quali lui non presta alcun credito), è stato più che mai sibillino. Non l´ha respinto ma non vuole che lo si citi nei documenti ufficiali, neppure in quelli delle Nazioni Unite. In sostanza rifiuta di considerarlo un punto di riferimento. Non vuole incontrare gli americani. Vuole un maggior ruolo delle Nazioni Unite, ma si fida poco anche di loro. Non hanno accettato una data riavvicinata per le elezioni, alle quali lui tiene in modo particolare.

Perché esse proveranno l´esistenza di una maggioranza sciita e conferiranno a quest´ultima la legittimità necessaria per dare al Paese istituzioni adeguate alla sua tradizione. Non istituzioni americane.

Al-Sistani condanna la violenza, l´imam Moqtada Al-Sadr la predica con slancio e successo. Al-Sistani ha settantaquattro anni. Al-Sadr è a malapena trentenne e non è soltanto un imam: è anche un capo militare. Ne ha la grinta. Nei ritratti, sulla strada per Najaf, la sua espressione dura, aggressiva, contrasta con quella solenne di Al-Sistani.

Le sue milizie, che hanno sparato nelle ultime ore a Najaf, a Bagdad, a Bassora, a Nassiriya, hanno una missione drastica e semplice: cacciare le truppe straniere. Sono obiettivamente alleate dei guerriglieri saddamisti che nel Triangolo sunnita uccidono come media un americano al giorno. L´autorità di Al-Sadr viene anche dal fatto che suo nonno e suo padre erano celebri ayatollah, e che suo padre fu ucciso nel '99 da Saddam Hussein. Per questo il grande quartiere sciita di Bagdad, un tempo dedicato al raìs, adesso si chiama Sadr City. L´odio per gli americani unisce amici e nemici del vecchio regime.

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