Da Corriere della Sera del 05/04/2004

Furia degli sciiti, una giornata di sangue

I soldati spagnoli, assaliti nella Città Santa, sparano. Almeno venti morti. Sette americani uccisi nella capitale

di Giuliano Gallo

BAGDAD - L'Iraq conosce una delle giornate più cupe dalla fine della guerra: oltre 20 morti e 150 feriti nella Città Santa di Najaf, sette soldati Usa uccisi a Bagdad e due marines nella regione di Falluja, una moschea distrutta a Baquba, un carabiniere ferito a Nassiriya.

A Najaf è stata la regia dell'imam Moqtada al Sadr a scatenare gli scontri. La sua parola d’ordine: «Terrorizzate il nemico». I suoi miliziani obbediscono. Gli sciiti radicali vedono in Moqtada, giovane imam figlio di Mohamed Sadeq Sadr, un leggendario oppositore di Saddam assassinato nel '99, il loro leader. L'unico in grado di opporsi con la forza agli «invasori». E la rabbia diventa quasi guerra aperta: dopo il massacro di Najaf, centinaia di miliziani, pesantemente armati, hanno invaso le strade di Sadr City, il quartiere sciita di Bagdad, occupando stazioni di polizia e uffici governativi. Sono intervenuti anche i pesanti carri armati Abrahms, si parla di morti, ma non ci sono conferme. Il buio della notte non porta più l'eco di spari lontani, ma solo il rombo cupo degli elicotteri Black Hawk.

Era cominciato tutto con la chiusura, decretata domenica scorsa dall'autorità provvisoria, del quotidiano Al Hawza , accusato di incitare alla violenza. Sessanta giorni di chiusura, che venerdi sera avevano spinto nelle strade di Bagdad migliaia di miliziani, che avevano sfilato con il passamontagna nero calato sul volto e la fascia verde dei martiri annodata sulla fronte. Ieri mattina la situazione è precipitata: a Najaf si era sparsa la voce dell'arresto di Mustafa al Yacoubi, delegato di Al Sadr nella Città Santa, sospettato di aver avuto una parte nell'assassinio dell'ayatollah Al Khoei. Migliaia di dimostranti, molti dei quali armati, al grido di «abbasso l'America» si erano diretti verso la base Al Andalus, che ospita i soldati spagnoli della brigata Plus Ultra II. E per una sorta di atroce beffa del destino è toccato proprio agli spagnoli - quelli che dovrebbero lasciare l'Iraq a giugno, quelli con alle spalle un Paese che ha respinto con fermezza questa guerra - di dover imbracciare le armi e uccidere. Tre ore di scontri, l’intervento degli elicotteri. Alla fine, sul terreno sono rimasti almeno 20 iracheni e due soldati: uno americano e uno venuto dal lontano Salvador. Negli ospedali di Najaf 150 feriti, nove dei quali salvadoregni.

Nelle stesse ore, segno di una regia attenta e rigorosa, altri militanti di Al Sadr cingevano d'assedio la «green zone» di Bagdad, che ospita il comando americano. Un gruppo di due-trecento persone si è spinto fino ai due grandi alberghi, lo Sheraton e il Palestine. «Con il sangue e con il cuore difenderemo Moqtada» gridavano in Piazza della Primavera, celebre in tutto il mondo perché qui sorgeva l'enorme statua di Saddam abbattuta un anno fa dai blindati americani. Ma nella folla qualcuno scandiva anche un altro slogan inquietante: «Lunga vita a Saddam». I soldati a guardia degli alberghi sembrano intenzionati a non reagire. A poche centinaia di metri, davanti all'hotel Bagdad che ospita membri dell’intelligence Usa, i vigilantes hanno aperto il fuoco. Uno, due, tre uomini sono caduti e poi velocemente caricati su delle auto. Morti, feriti, chissà. Poi la manifestazione in Piazza della Primavera, che si era trasformata in un sit-in, si è sciolta come d'incanto. Ma non era finita: a Sadr City, mentre cominciava a fare buio, gli scontri sono ripresi: sette soldati americani sono stati uccisi.

Paul Bremer, capo dell'Autorità provvisoria, ha risposto agli attacchi degli sciiti con parole chiare: «Le violenze di Najaf sono intollerabili, ma sono gli iracheni a doversi far carico della propria sicurezza, perché la democrazia possa progredire». Bremer ha nominato, proprio ieri, un nuovo ministro della Difesa, i responsabili dei servizi di intelligence e ha istituito un Comitato per la sicurezza. Forse è troppo poco. E forse non basterà nemmeno il severo monito di Al Sistani, la massima autorità religiosa degli sciiti, che al termine delle funzioni religiose ha chiesto ai suoi fedeli di «non cedere alla tentazione della violenza».

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