Da La Repubblica del 03/04/2004

Sindrome Minority Report

Prima o dopo il voto si dovrà affrontare il conflitto che mina la maggioranza. Come nel romanzo di Philip K. Dick ci si avventura in territori pre-giuridici

di Giuseppe D'Avanzo

SE vuole proteggere se stessa e i suoi cittadini, fin dove può spingersi una democrazia senza tradire se stessa? Quale prezzo siamo disposti a far pagare alla nostra libertà per garantirci sicurezza? È lungo questo stretto sentiero, che conosce soltanto tormentati dubbi, che si è spinto il ministro dell´Interno Giuseppe Pisanu approvando un piano preventivo contro il terrorismo. L´operazione di polizia, valutata e preparata dopo le stragi madrilene dell´11 marzo, discussa a Bruxelles al vertice dei ministri dell´Interno dell´Unione europea, ha avuto ieri il suo primo atto con il "controllo", chiamiamolo così, di 161 immigrati islamici. A nessuno di loro viene contestato alcun reato, alcun comportamento o mossa criminale. I 161, in vari modi, sono stati protagonisti o comprimari o comparse nelle indagini antiterrorismo di questi anni anche se, contro di loro, non ci sono state ragionevoli "evidenze" per condurli dinanzi a un giudice per affrontare un giusto processo. I 161, dunque, sono circondati dal mero sospetto. La loro pericolosità è possibile, ma non provata. Declinata così, l´"operazione preventiva" svela la sua assoluta novità per il nostro Stato di diritto. Pisanu ne è consapevole.

La strategia che il ministro ha deciso di dare alla nostra politica della sicurezza ha un presupposto analitico e una necessità operativa. Affronta un rischio culturale. Svela due insufficienze politiche.

Il presupposto è questo: l´Italia sarà colpita dal fondamentalismo islamico. È una convinzione radicata negli addetti alle investigazioni, che pure consapevolmente tengono l´allarme a bassa intensità. Tra di loro c´è chi giudica questo pericolo probabile e chi inevitabile. Nessuno, però, è così avventato (o disinformato) da ridimensionarlo e, d´altronde, ogni giorno raccoglie il suo segnale di inquietudine.

Il segnale di ieri è giunto dagli Stati Uniti dove la rete televisiva Nbc ha dato conto di un «promemoria» attribuito a Abdulaziz al-Mukrin, «ritenuto il capo dell´organizzazione di Osama bin Laden in Arabia Saudita». Nella lista dei Paesi da colpire l´Italia figura al sesto posto, dopo Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Australia e Canada.

La necessità. Pisanu non crede che il meccanismo investigativo-giudiziario (indagini / istruttoria / processo) possa far fronte alla minaccia jihadista. È un´opinione diffusa anche tra alcuni magistrati, a meno di non accettare l´idea che il fondamentalismo islamico ha messo così in crisi gli ordinamenti giuridici occidentali da rendere necessaria una loro modificazione per renderli utili alla sicurezza collettiva. Come è accaduto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove sono state approvate "legislazioni speciali" (in base al solo sospetto, arresto sine die fino a conclusione delle indagini). Il ministro dell´Interno non crede che si possano deformare le regole del processo senza violare, con la libertà dell´individuo, diritti inalienabili. Diventato infruttuoso il percorso giudiziario, Pisanu pensa tuttavia che sia un suo dovere politico e istituzionale assumere la responsabilità di «isolare e mettere in condizioni di non nuocere» gli islamici intolleranti, i violenti, i predicatori d´odio, coloro che a vario titolo sono sospettati di essere sensibili, attratti o già in contatto con lo jihadismo. Ecco che allora la sola procedura capace di tenere insieme diritti e sicurezza gli è apparsa l´espulsione amministrativa delle persone sospettate di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Già utilizzata contro sette immigrati islamici, l´opzione si può allargare, per Pisanu, fino a contenere tutti gli uomini, in qualche modo, coinvolti per il loro passato di combattenti della «guerra santa» in altre parti del mondo, per i loro contatti o frequentazioni nelle indagini dell´antiterrorismo.

Il rischio. Lo si rintraccia emblematicamente nelle parole del capo della polizia che hanno accompagnato ieri l´"operazione preventiva". «La nostra azione - ha detto Gianni De Gennaro - è mirata a contrastare quanti sono sospettati di gravitare nell´area più vicina al fondamentalismo. Un´azione preventiva di cui non si ha certezza per quanto riguarda tutto ciò che può aver sventato».

Se si ipotizza che, rimuovendo i sospettati, si azzera il pericolo, il confine della stessa concezione di legittima difesa dinanzi a un pericolo concreto, attuale, inevitabile viene spostato all´indietro da una dimensione giuridica a un territorio pre-giuridico. È quella che argutamente Marco Bouchard (Questione Giustizia 5/2003) ha definito la sindrome da Minority Report.

Minority Report è un racconto breve di Philip K. Dick del 1956, diventato un fortunato film per la regia di Steven Spielberg. Si immagina, nel 2054, l´esistenza di un´agenzia «Pre-crimine» che - grazie alle predizioni di mutanti - ha la capacità di arrestare individui che non hanno infranto alcune legge ma che sicuramente la violeranno.

«Noi - dice il protagonista John Anderton - li prendiamo prima che possano commettere un´azione violenta. Noi diciamo che sono colpevoli. Loro proclamano in eterno la loro innocenza. E in un certo senso sono innocenti... Nella nostra società non abbiamo più reati, ma abbiamo un campo di prigionia pieno di potenziali criminali».

La "sindrome da Minority Report" è una politica della sicurezza e una filosofia penale che rinuncia a qualsiasi ordine legale, che precipita in nome della difesa sociale ogni azione dello Stato nella prospettiva amico/nemico. Se, in questa prospettiva, si vogliono accertare responsabilità o possibili responsabilità si schiudono le porte, come scrive Bouchard, «a comportamenti essenzialmente fondati sul sospetto e sul pregiudizio in antitesi perfetta al tentativo compiuto da ogni società evoluta di attenersi rigorosamente al principio del rispetto dei fatti».

Le insufficienze. Nessuno che abbia un po´ di sale in zucca o una qualche consapevolezza dell´aggressione jihadista o un ricordo dell´11 settembre e dell´11 marzo, può liquidare con leggerezza o ideologismi la decisione di Giuseppe Pisanu. E tuttavia, anche volendo giudicare dolorosamente pragmatica la scelta del ministro dell´Interno, non va taciuta la debolezza di una decisione che riduce al solo provvedimento di polizia il confronto con le comunità islamiche e il dibattito pubblico.

Come sarà interpretata «la strategia delle espulsioni» dalle comunità islamiche del nostro Paese? Non è un interrogativo inutile. Dalla risposta dipendono i frutti che quella strategia farà fiorire. Perché quei frutti possono essere avvelenati dalla convinzione di essere oggetti di una persecuzione, dalla consapevolezza di pagare lo spirito di vendetta dell´Occidente contro un Islam definito soltanto con le coordinate di Osama Bin Laden. Quella strategia sarà incomprensibile se non accompagnata da concrete politiche che possano favorire la nascita di un «islam italiano» pacificato. Un «islam italiano» che sia in grado di vedere e toccare il volto mite del nostro Paese, soprattutto di rassicurare quella che Khaled Fouad Allam ha definito «la generazione perdente nei processi di integrazione», i giovani islamici nord-africani, mediorientali, asiatici che vivono nelle nostre periferie urbane, oggi pericolosamente «strumentalizzabili» dai gruppi del terrore. Soltanto una "politica del dialogo" sarà capace di spezzare il circuito perverso di «terrorismo nichilista e deficit di integrazione». È vero, più volte Pisanu ha sostenuto pubblicamente che «agli islamici moderati dobbiamo offrire una buona politica che miri non tanto all´integrazione immediata, quanto all´inclusione graduale o almeno alla serena convivenza nella società italiana che li ha accolti e che è disposta a tenerli sia come ospiti rispettosi, sia come cittadini a pieno titolo, con gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli italiani». Ma al di là delle intenzioni, che strada ha fatto questo proposito? Appare questa la prima insufficienza che incontra la nuova strategia del Viminale.

La seconda va ricercata nel cortile di casa nostra perché la scelta difficile di Pisanu non può rimanere rinchiusa nelle stanze del Viminale. Chiede, impone che il Parlamento ne discuta pubblicamente. Anche il padre della legislazione speciale americana seguita all´assalto delle Torri Gemelle, Viet Dinh, a un anno dal varo del Patriot Act, ha sostenuto che «il Congresso deve fare sentire la sua voce perché c´è bisogno di leggi e non ci si può accontentare di un´attività paralegislativa e unilaterale dell´Esecutivo». Perché dovremmo accontentarcene in Italia?

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