Da Il Mattino del 19/03/2004
L'alba di Baghdad
di Vittorio Dell'Uva
Le prime esplosioni che, all’alba, cominciavano a scuotere il cuore di Baghdad, il 20 marzo di un anno fa, indicavano che la grande «passeggiata della guerra» voluta da Bush era cominciata, piacesse o meno a buona parte del mondo. Non era, sul piano bellico, una grande impresa da compiere in casa del diavolo. I satelliti-spia avevano già raccontato che l’esercito iracheno si muoveva su «ferrivecchi» di costruzione sovietica e che la ruggine corrodeva da tempo le sue rampe di missili piuttosto imprecisi. Né potevano dare pensiero l’esercito a pezzi e la Guardia repubblicana, il corpo di élite di Saddam, che ormai appariva in disarmo. L’unica incognita era rappresentata, in quei giorni, dalle armi di distruzioni di massa, ultima «araba fenice» ed utile alibi alle ambizioni di Washington, che il pericolo - come si è visto - se lo era inventato. Fornendo, naturalmente, le «prove» a quanti volevano credere che fossero consistenti davvero.
Più che i dubbi degli ispettori dell'Onu in Iraq, poterono le immagini riprese dal cielo di camion da trasporto spacciati per laboratori in cui si preparavano micidiali veleni. Più dell'evidenza funzionò il meccanismo di una deviante semplificazione della realtà legata alla tragedia dell'11 settembre. L'America che con pieno diritto si opponeva alla sfida del terrorismo internazionale, poneva artatamente l'Iraq, che al fondamentalismo anche per suo conto aveva fatto da scudo, sullo stesso piano dell'Afghanistan dei Taleban e di Osama, provando, tra le nebbie che aveva creato, a consolidare il proprio potere in una regione strategicamente ed economicamente importante.
Un anno dopo, la guerra «preventiva» e quindi inventata continua a produrre macerie anche se Saddam Hussein è stato stanato in un buco da topi non lontano dalla sua Tikrit e il grande apparato di un regime sanguinario ed oppressivo è stato dissolto.
Certo stando a sondaggi attendibili, come quello recentissimo della BBC, gli iracheni vivono una stagione migliore rispetto ai decenni cupi della dittatura, avendo ritrovato il gusto di una dialettica politica che era stata loro negata. Né si può disconoscere che dopo essere stati sottratti all'embargo che li aveva piegati, intravedano nuove prospettive concrete se non un futuro ai margini del «libero mercato», ultima bandiera dell'Occidente. Ma ancora non sono riusciti ad uscire da antichi timori e a provare davvero trasporto verso i «liberatori» troppo spesso orientati a rinchiudersi nelle roccaforti della sicurezza. È come se un corpo estraneo si fosse insediato nel tessuto sociale iracheno provocando un crescente fastidio. «Non pochi «thank you» agli americani fanno da battistrada ai «go home» anche se i primi passi concreti sulla via della ricostruzione cominciano a dare salari e lavoro e un nuovo profilo istituzionale si riesce finalmente ad intravedere con la Costituzione «suggerita» dagli Usa.
Il grande feeling che all'opinione pubblica americana era stato precipitosamente venduto è venuto a mancare. Mai sono venute alla luce le bandierine a stelle e strisce che secondo gli analisti di Washington milioni di iracheni nascondevano con il kalashinkov sotto il letto in attesa di tempi migliori. Piuttosto la morte di oltre cinquecento soldati marines e di altre decine di occidentali, tra cui gli italiani di Nassiriya, ha reso a poco a poco «infinita» la guerra che Bush il primo maggio dello scorso anno aveva, con orgoglio, dichiarato conclusa.
Il saddammismo residuo, ma con basi assai consolidate da trenta anni di favori che il regime sapeva elargire, ha portato il conflitto sul terreno che gli è più congeniale provando ad alimentare con la guerriglia la sua grande illusione. «La guerra delle città» che il rais aveva promesso ha trovato attraverso gli agguati e i massacri dei civili la sua realizzazione concreta. L'insicurezza indotta con le bombe è diventata una colpa da attribuire più alle truppe occupanti che ai «gruppi di fuoco» che lavorano alla destabilizzazione inseguendo un sogno impossibile. La morte sempre in agguato, anche nei luoghi la cui sacralità non andrebbe violata, tende a ridurre la spinta innovatrice che dalla nuova classe dirigente potrebbe arrivare.
Paradossalmente diventa realtà, dopo un anno, l'impianto della manipolazione che ha generato la guerra. È l'Iraq di oggi, con ciò che produce, a costituire un pericolo. Le frange della resistenza e quelle di Al Qaida cui le frontiere irachene erano state sempre precluse si saldano sul terreno della cooperazione operativa e strategica. Armi improprie di distruzione di massa, gli zainetti con timer ed esplosivo, seminano la morte nel cuore d'Europa. La sfida che si voleva evitare diventa globale senza che si riesca più a comprendere dove si nasconda, davvero, la testa del mostro.
Più che i dubbi degli ispettori dell'Onu in Iraq, poterono le immagini riprese dal cielo di camion da trasporto spacciati per laboratori in cui si preparavano micidiali veleni. Più dell'evidenza funzionò il meccanismo di una deviante semplificazione della realtà legata alla tragedia dell'11 settembre. L'America che con pieno diritto si opponeva alla sfida del terrorismo internazionale, poneva artatamente l'Iraq, che al fondamentalismo anche per suo conto aveva fatto da scudo, sullo stesso piano dell'Afghanistan dei Taleban e di Osama, provando, tra le nebbie che aveva creato, a consolidare il proprio potere in una regione strategicamente ed economicamente importante.
Un anno dopo, la guerra «preventiva» e quindi inventata continua a produrre macerie anche se Saddam Hussein è stato stanato in un buco da topi non lontano dalla sua Tikrit e il grande apparato di un regime sanguinario ed oppressivo è stato dissolto.
Certo stando a sondaggi attendibili, come quello recentissimo della BBC, gli iracheni vivono una stagione migliore rispetto ai decenni cupi della dittatura, avendo ritrovato il gusto di una dialettica politica che era stata loro negata. Né si può disconoscere che dopo essere stati sottratti all'embargo che li aveva piegati, intravedano nuove prospettive concrete se non un futuro ai margini del «libero mercato», ultima bandiera dell'Occidente. Ma ancora non sono riusciti ad uscire da antichi timori e a provare davvero trasporto verso i «liberatori» troppo spesso orientati a rinchiudersi nelle roccaforti della sicurezza. È come se un corpo estraneo si fosse insediato nel tessuto sociale iracheno provocando un crescente fastidio. «Non pochi «thank you» agli americani fanno da battistrada ai «go home» anche se i primi passi concreti sulla via della ricostruzione cominciano a dare salari e lavoro e un nuovo profilo istituzionale si riesce finalmente ad intravedere con la Costituzione «suggerita» dagli Usa.
Il grande feeling che all'opinione pubblica americana era stato precipitosamente venduto è venuto a mancare. Mai sono venute alla luce le bandierine a stelle e strisce che secondo gli analisti di Washington milioni di iracheni nascondevano con il kalashinkov sotto il letto in attesa di tempi migliori. Piuttosto la morte di oltre cinquecento soldati marines e di altre decine di occidentali, tra cui gli italiani di Nassiriya, ha reso a poco a poco «infinita» la guerra che Bush il primo maggio dello scorso anno aveva, con orgoglio, dichiarato conclusa.
Il saddammismo residuo, ma con basi assai consolidate da trenta anni di favori che il regime sapeva elargire, ha portato il conflitto sul terreno che gli è più congeniale provando ad alimentare con la guerriglia la sua grande illusione. «La guerra delle città» che il rais aveva promesso ha trovato attraverso gli agguati e i massacri dei civili la sua realizzazione concreta. L'insicurezza indotta con le bombe è diventata una colpa da attribuire più alle truppe occupanti che ai «gruppi di fuoco» che lavorano alla destabilizzazione inseguendo un sogno impossibile. La morte sempre in agguato, anche nei luoghi la cui sacralità non andrebbe violata, tende a ridurre la spinta innovatrice che dalla nuova classe dirigente potrebbe arrivare.
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